lunedì, maggio 07, 2007

Il Bambino Consumato

Interno estate. Un’isola: Salina, Eolie. Un uomo, al telefono.

“Pronto… Sara? Ciao, sono Lorenzo, il papà di Daniele… Ti ricordi?... Senti, mi passi papà, per favore?”.
Silenzio. Presumiamo, ma non udiamo, una voce dall’altra parte del cavo. Infatti, dopo un attimo l’uomo riprende, perplesso: “Il micio?! Come fa il micio?... Il micio fa: miao miao,” ride, imbarazzato.
Ora scopriamo anche l’interlocutore, una bimba: “E come fa il grillo?” chiede.
“Eh, ma il grillo fa cri cri. Lo sai, no? Adesso passami papà.”.
Ma la bimba insiste: “Come fa la pecora?”.
“La pecora fa: beeee…”.
“E come fa...”.
“Sara, ti prego, passami il papà…”.
Niente, la bimba esige un’altra imitazione, allora l’uomo inizia a ragliare: “Iiiooo, iiiooo. L'asinello fa: iiiooo. Lo sai questo, no?”.
Poi, finalmente, una voce fuori campo ci svela l’arcano: “Da anni l’isola di Salina era dominata dai figli unici. Ogni famiglia aveva un figlio, un figlio solamente, a cui veniva affidato il comando della situazione. Ormai era praticamente impossibile comunicare per telefono, perché nelle case gli apparecchi venivano subito intercettati dai bambini che, per ore…”.
“Ciao sono Rosanna, mi passi la mamma o il papà. Ci sono?”.
“Mamma e papà sono in casa, però io adesso ti racconto una favola...”.

Con questa mirabile sequenza, tratta dall’ironico e intelligente “Caro diario”, il regista Nanni Moretti sintetizza l’immagine di una condizione assolutamente nuova nel panorama dei rapporti tra educatori e educandi, in particolare per quel che concerne l’ambito famigliare, ma non solo. I figli, quei figli che, a partire dai movimenti studenteschi degli anni Sessanta hanno affermato la possibilità concreta e generalizzata di contestare e mettere in discussione l’autoritarismo del potere costituito; quei figli, ora diventati a loro volta genitori, si trovano, non certo senza colpe, a dover gestire un’inedita configurazione che, come nel più classico canovaccio d’ogni rivoluzione, sembra aver trasformato i perseguitati in persecutori.

Non è questo l’ambito per andare a dissotterrare le molteplici radici che danno e hanno dato linfa a questa inusitata condizione. Ci limiteremo, per quel che concerne il nostro discorrere, a registrarla, ben consci che la questione, come sempre, è ben più complessa della rigida separazione tra chi comanda e chi subisce e che il limitarsi ad osservare, in questa mutazione, la sola emergenza del minore quale nuovo detentore del potere, tratteggia una distorta semplificazione del concetto di potere stesso, come della lettura del reale.

La sola esistenza di progetti e interventi di prevenzione e informazione sull'abuso e il maltrattamento dei minori, proprio rivendicando l’esigenza di un lavoro in questa direzione, segnala l’ipocrisia di una tale credenza e rilancia, invece, la necessità di un’analisi più approfondita che, marcando l’esistenza e l’insistenza del fenomeno dell’abuso, non solo disvela la fragilità di questo presunto potere, ma ci invita, semmai, a riflettere su quanto tale potere possa essere anche il risultato di una mancanza: quella di un adulto che la cultura dominante vorrebbe educato alla gestione del dialogo e dell’autorevolezza con l’educando ma che, troppo spesso: o conosce solo l’imposizione violenta dell’autorità o, rifiutandola per omologazione culturale e non per consapevole interiorizzazione, fatica a gestire un potere non imperniato sulla prevaricazione e preferisce abbandonare il minore a quelle responsabilità che non sa dirimere. Così, letta da questa angolazione, il presunto potere del minore, altro non sarebbe, ancora una volta, che un abuso dell’adulto.

Cionondimeno: emblema del nuovo potere minorile o dell’ennesimo abuso dell’adulto, il fenomeno sussiste ed è paradigma di una reale trasformazione delle dinamiche famigliari. Insomma, il bambino della società capitalista post-moderna è un individuo in grado di esercitare un potere coercitivo sull’immediata cerchia dei suoi interlocutori più affettivamente interessati. A questo bambino, l’adulto di riferimento, soprattutto quando ricopre il ruolo di genitore o affine (nonni, zii, etc,), fatica a negare la soddisfazione anche delle richieste più assurde e, laddove vi riesce, la vive al prezzo di pesanti sensi di colpa.

Insieme ai rivelatori artistici, come il film di Moretti, e alle varie discipline che indagano i mutamenti della società contemporanea, se ne sono resi conto anche i signori del marketing, gli stregoni della propaganda che ogni giorno si arrabattano escogitando nuovi espedienti per incentivare i nostri consumi. Ma, se per i primi si tratta di un fenomeno da rilevare e da rappresentare; per chi commercia strategie di consenso e vendita, questa metamorfosi si è rivelata un vero e proprio asso nella manica (anche a fronte di una certa crisi delle idee che attanaglia il mondo della pubblicità) che ha trasformato il bambino in un poderoso strumento: un nuovo efficace media all’interno del nucleo famigliare.

Non a caso, negli ultimi dieci anni, la presenza di bambini nella promozione di prodotti destinati anche ad altri target è andata progressivamente aumentando, fino a raggiungere livelli di assoluta incongruenza tra testimonial-bambino promuovente e prodotto promosso, un escalation spiegabile solo in una logica di sfruttamento dell’infanzia non dissimile ad altre forme più terzomondiste cui il capitalismo si presta per la gloria del fatturato.

D’altra parte il bambino è già un perfetto testimonial che arricchisce e cattura la scena della vendita e, soprattutto, mitiga quell’aurea di coazione e di conseguente diffidenza che caratterizza il messaggio pubblicitario. Il bambino, infatti, è per definizione puro, scevro da sovrastrutture, incapace di mentire e, in quanto tale, veicolo di autenticità e bontà del prodotto commercializzato. A queste naturali valenze che il bambino come simbolo veicola, l’odierna fabbrica del consumo ha saputo aggiungerne una nuova, direttamente discendente dall’odierna capacità del minore di imporre le sue voglie e quindi di orientare le scelte del nucleo famigliare.

Gli esperti di marketing chiamano questa tendenza “nag factor”, qualcosa che si potrebbe tradurre come “fattore assillante”, ossia il tormento che il bambino riesce procurare ai suoi genitori fino a convincerli, in questo caso, ad acquistare un determinato prodotto. Una metodologia persuasiva studiata in collaborazione con esperti psicologi dell’età evolutiva che, analizzando i differenti potenziali di assillo, le loro percentuali di successo, sia in merito alla possibilità di attivarsi che rispetto alla probabilità di fare breccia nelle decisioni dell’adulto, propongono una serie di combinazioni vincenti legate soprattutto ai generi alimentari, ma non solo.

Il meccanismo è terribile e si presenta, di fatto, come una vera e propria forma di abuso determinata con la complicità dal variegato mondo adulto che la retorica del buonismo vorrebbe sempre schierato per il benessere del bambino ma che, o inconsapevolmente (vedi molti genitori), o con calcolato cinismo (vedi le agenzie pubblicitarie), partecipa a questa violenza, per quanto mascherata e apparentemente indolore. Facciamo un esempio.

All’età in cui normalmente un bambino ingressa nel mondo della scuola e ipotizzando (per difetto) che, a partire dai tre anni, abbia frequentato la televisione almeno un’ora al giorno, a quanti spot pubblicitari avrà potuto assistere? Stiamo parlando di una cifra che, sempre al ribasso, supera le diecimila unità. Se a questi aggiungiamo quelli radiofonici, quelli dei cartelloni stradali, quelli che compaiono negli altri media (fumetti, internet, Cd-rom), ma anche su indumenti personali, oggetti, gadget, etc. la dimensione del sovraccarico simbolico e dell’incitamento al consumo non ha precedenti nella storia dell’umanità. All’età di sei anni, ma certamente anche prima, la gran parte dei minori occidentali, sono già delle specie di bombe pubblicitarie cariche di slogan e di convincimenti su cosa è buono e cosa no e, soprattutto, su cosa può o meno renderli felici.

Certo, nessuno è immune dall’influenza della propaganda commerciale e, almeno una volta nella vita, chiunque si è trovato ad acquistare qualcosa solo perché spinto dal desiderio promosso da qualche invitante messaggio pubblicitario. Ma, ciò che caratterizza il consumatore adulto e lo rende instabile per le esigenze del mercato, è la sua capacità, almeno in potenza, di riflettere, di tenere in considerazione molteplici varianti e, non ultima, di valutare l’acquisto a partire da una concreta possibilità economica. Tutte le tecniche, le strategie, le seduzioni della pubblicità compartecipano, allora, al tentativo di abbassare la soglia di questa presenza critica con suggestioni sempre più raffinate il cui obiettivo è spingere il consumatore ad ignorare qualsiasi valutazione che non sia quella che porti all’immediata soddisfazione dei suoi desideri. Ma non è forse questo il ritratto più fedele del bambino? Criticità, ponderatezza, riflessione, valutazione delle possibilità economiche, sono tutti elementi che difettano al bambino, che è essere desiderante per natura e che, per questo, diventa un bocconcino invitante per gli strateghi della pubblicità, a cui non sembra vero di poter esercitare le loro sofisticate tecniche persuasive su una struttura psichica tanto predisposta ad abbracciare e a prendere in considerazione, con indistinta e fiduciosa ingenuità, qualsivoglia segnale di stimolo, per riconvertirlo in quegli indispensabili elementi di conoscenza che hanno caratterizzato le sorti della specie umana.

Il bambino è il consumatore perfetto che ogni campagna pubblicitaria vorrebbe includere tra i suoi bersagli. E allora, imbottendo fin da subito il bambino di messaggi pubblicitari, di sollecitazioni al consumo, i signori del marketing costruiscono, certo con la complicità di una società civile quantomeno disattenta, il loro allevamento di perfetti consumatori: una sorta di bambino-media capace di inglobare il messaggio pubblicitario e di moltiplicarlo all’interno delle famiglie caricato di una quantità di valenze psicoaffettive che lo rendono inattaccabile: paura dell’adulto di frustrare i desideri del bambino; paura che la mancanza di quel prodotto generi nel piccolo (ma spesso anche nell’adulto) un senso di inferiorità sociale, desiderio di dare al proprio figlio quello che è mancato alla propria infanzia; incapacità dell’adulto a gestire dialetticamente il conflitto per mancanza di strumenti o, peggio, di tempo da dedicare; ma anche senso di colpa proprio discendente dalla sempre più accentuata mancanza di tempo che il genitore contemporaneo dona ai propri figli e che crede di poter sanare dando soddisfazione ai desideri materiali del bambino; etc.

Si tratta, inoltre, di una strategia che non si esaurisce nel breve raggio della vendita di un singolo prodotto. Certo, in prima battuta, il bambino con la sua insistenza, i suoi capricci, riesce a promuovere l’acquisto di beni direttamente fruibili da lui stesso: giocattoli, merendine, vestiti, programmi televisivi, etc. Ma, la sua funzione va ben oltre. Un bambino-media ben pubblinutrito, è anche in grado di orientare le scelte dei consumi più prettamente adulti; emblematico il caso del cibo, ma anche dell’automobile, dei divertimenti, dei prodotti estetici, etc. E, infine, più a lungo termine, l’idea che un bambino cresciuto a suon di messaggi pubblicitari diventi nel tempo un fedele consumatore (e non importa, secondo questa logica, di che cosa: l’importante è che consumi), insegnando, di conseguenza, ai suoi eventuali figli atteggiamenti similari.

Altro inquietante segnale in questa direzione rientra nelle strategie del cosiddetto “viral marketing” che sfrutta l'effetto "virale" del passaparola: una forma di propaganda antica come il mondo ma che, se ben nutrita e strutturata, può garantire ottimi risultati anche a fronte di bassissimi investimenti.

Questa strategia applicata al mondo dei minori prevede l’arruolamento di giovanissimi promoter per la diffusione di prodotti prettamente destinati alla loro età. Il fenomeno in Italia è, per ora, abbastanza marginale e coinvolge soprattutto quelle discoteche che, in barba a qualsiasi legge, ingaggiano nutriti gruppi di adolescenti che godono di una certa popolarità per promuovere tra i coetanei le loro iniziative; ma aspettiamoci di assistere ad un notevole incremento visto che gli Stati Uniti, dove è in voga già da qualche anno, schierano un esercito di oltre quarantamila adepti che, come esperte venditrici della tupperware, organizzano feste e raduni finanziati da qualche azienda produttrice di merendine, giocattoli, abbigliamento, sfruttando, e di fatto frantumando, quella dimensione dell’amicizia che, almeno a questa età, eravamo abituati a considerare ancora sacralizzata.

Ora, di fronte a questa autentica invasione, vengono in luce almeno due differenti posizioni: quella di chi teme il delinearsi di una società, nemmeno troppo a venire, di automi condizionati nelle scelte, nei gusti, nei desideri; l’altra di chi ritiene che tale influenza rappresenti un aspetto ormai irrinunciabile del processo di formazione dell’individuo post-moderno, la cui relazione con il consumo e con le merci altro non sarebbe che una riedizione aggiornata del rapporto che da sempre l’uomo intrattiene con l’ambiente che lo circonda e che, se da una parte risulta indispensabile alla costruzione della propria identità, dall’altra si pone tra i maggiori responsabili del processo di crescita cognitiva che caratterizza le nuove generazioni esposte fin dalla nascita al contagio dei vari media.

Personalmente credo che, a queste due posizioni più o meno radicali e storicizzate del dibattito in questione, se ne debba necessariamente aggiungere una terza che, se non abbassa l’allarme e l’attenzione rispetto all’invasività coercitiva dell’odierna società dei consumi, non respinge nemmeno la sua funzione integrativa e formativa, ormai irrinunciabile per un adeguato sviluppo cognitivo.

Il problema, secondo questa terza via, si pone semmai in altri termini: come, cioè, favorire i necessari aspetti integrativi scongiurando quelli abusanti? Perché è chiaro che, pensare oggi di poter tenere un bambino totalmente isolato dai media o, più generalmente, dal mondo delle merci, non solo è fisicamente impossibile, ma anche pedagogicamente sbagliato e frutto di una coercizione che non sfugge al concetto di abuso.

È in questo quadro della riflessione che emerge, allora, con forza e si fa determinante il contesto educativo che attornia il bambino: la famiglia, la scuola, i luoghi dell’aggregazione; là dove l’adulto e il minore possono (ma vorrei dire devono) trovare il tempo e lo spazio per setacciare, come cercatori d’oro, le molteplici suggestioni che giungono dai vari media e separare le pagliuzze del prezioso metallo dal fango e dalla spazzatura.

È dunque, come sempre, la presenza di un adulto capace di tutelare il minore, accompagnandolo all’identificazione e alla comprensione dei fenomeni che lo circondano, che fa la differenza tra un bambino sottoposto a questo genere di abuso e un bambino educato a riconoscerne le forme, i segnali, i linguaggi e, dunque, in qualche modo, preservato.

Forse, una società civile più attenta e davvero desiderosa di lavorare per il benessere delle nuove generazioni (e, quindi, implicitamente per il benessere prossimo venturo della società stessa), si porrebbe nell’ottica di vietare (allo stesso modo in cui giustamente si scandalizza, protesta e vieta altre forme più appariscenti di sevizie) qualsiasi sfruttamento dell’infanzia, foss’anche, come in questo caso, della sua immagine.

Sembra, invece, che, quando ad essere intaccato non è il corpo fisico o psichico del minore ma quella cosa impalpabile e senza apparenti ripercussioni che è l’immagine dell’infanzia, allora, come dire: l’abuso è minore o, forse, non è nemmeno davvero il caso di parlare di abuso.

Questa terza via, che qui si vuole sostenere, parte invece dal presupposto che è proprio grazie ad un’immagine dell’infanzia continuamente mercificata e mortificata nelle sue rappresentazioni che ben altre forme di abuso trovano lo spazio per incunearsi e reificarsi nelle drammatiche dimensioni che quotidianamente riempiono la cronaca dei quotidiani; e che solo un adeguato lavoro formativo con le famiglie come con le scuole, al fine di favorire la comprensione critica e la consapevolezza degli educatori intorno a questi fenomeni troppo spesso sminuiti, può promuovere quella scrupolosa attenzione che ogni adulto dovrebbe riservare all’educando nel suo rapporto con i segnali massmediatici.

Una società complessa come quella in cui viviamo, dove le sollecitazioni e le manipolazioni delle nostre coscienze hanno superato la soglia della comprensione intuitiva o del buon senso, non può più permettersi un educatore, sia esso genitore, insegnante o quant’altro, che non sappia riconoscere questa complessità per tradurla e disporla all’incontro e alla riflessione con l’educando, affinché questi costruisca nel tempo una sua personale visione del mondo, strumento indispensabile per essere, domani, un adulto capace di intenzionare e determinare la propria esistenza.

Massimo Silvano Galli (www.msgdixit.it)

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