A quei tempi, il Suor Orsola era patrocinato dalla principessa Adelaide del Balzo Pignatelli, principessa di Strongoli, che nel 1891 vi giunse in qualità di ispettrice onoraria e nel 1901 ne divenne l’amministratrice unica. Quest’ultima elaborò un disegno coraggioso ed innovatore per l’epoca che mirava alla promozione della cultura femminile nel Mezzogiorno d’Italia, allora particolarmente arretrata. L’originario progetto educativo si sviluppò ulteriormente e si completò nel 1895 con l’istituzione della Facoltà di Magistero, parificata nel 1902 insieme a quelle di Roma e Firenze. Il carteggio della principessa di Strongoli con Croce segnò l’inizio di un rapporto fra queste due grandi personalità che rivendicano con orgoglio la loro guida dell’Istituto[1]. Ovviamente, le lettere hanno come oggetto le attività didattiche e culturali del Suor Orsola. La principessa fu sempre vigile ed attenta ai bisogni dell’Istituto e Croce fu, per lei, un ottimo consigliere.
Ella, dama di corte della Regina Margherita e amica di re Umberto I, spese generosamente il suo denaro in opere umanitarie e scelse l’impegno pratico della scuola come funzione di formazione sociale. Anche Klemperer ebbe l’opportunità di conoscere la principessa. A questo incontro dedicò un paio di righe del suo diario di viaggio.
Manacorda non sedeva con noi in platea, ma in una loggia con la principessa Pignatelli, che lui stesso ci presentò durante la pausa del tè e che l’anno successivo mi offrì tutta la sua benevolenza. Manacorda aveva sempre da ridire su Napoli, ma tuttavia la definiva la città più aristocratica d’Italia; comunque, già sapevamo qualcosa sulla Principessa Pignatelli, benefattrice di quest’ultimo, e tra le più ricche donne intellettuali della nobiltà locale. Era rimasta vedova e aveva già vissuto una serie di tragedie familiari, era una mecenate, a cui stava a cuore l’ascesa culturale della città di Napoli, aveva patrocinato la scuola superiore femminile Suor Orsola ed a turno era anche dama di corte della Regina. Siamo stati accolti dalla sua estrema gentilezza ed affabilità. Mi chiese, un po’ ingenuamente, quanto tempo fosse necessario ai miei studenti per imparare il tedesco. Risposi, con un certo aplombe da teorico: «Un anno e mezzo». Non so come sarebbe suonata la mia risposta se la domanda mi fosse stata posta 14 giorni dopo, poiché mi aspettava una sgradevole esperienza[2].
Fu il Professor Guido Manacorda ad introdurlo nel, tanto complicato quanto affascinante, mondo universitario. Nelle pagine di Neapel im Frieden egli scrisse che nonostante il Professor Manacorda fosse un suo superiore, fra loro si instaurò da subito un legame di profonda amicizia, priva di formalismi. Il fatto che entrambi fossero novizi della carriera universitaria li avvicinò molto. Benedetto Croce a quell’epoca, già Senatore del Regno, ottenne l’istituzione della cattedra di Germanistica e l’impiego del Manacorda stesso.
Quest’ultimo fu il primo professore di tedesco della Facoltà e Klemperer fu il suo primo lettore. Entrambi, entusiasti dei loro incarichi, diedero un contributo concreto al Suor Orsola. Klemperer rimase incantato dall’abbagliante bellezza dell’Istituto, al quale, nella sua opera, dedicò una dettagliata descrizione.
L’anno successivo tenni lezione qui quasi tutti i giorni e questo fasto fiabesco mi toccava sempre di più. Tramite un ascensore si accedeva ad una galleria di vetro da cui si scorgeva immediatamente il panorama di Napoli; dopo la galleria si arrivava ad un giardino e ci si ritrovava di nuovo in un’altra favola. C’era un giardino in pietra, circondato da mura spesse, con sentieri spianati, molti pilastri ed archi, ma era anche il giardino più variopinto, più verdeggiante e vasto, fortemente impregnato di fragranze di fiori d’arancio. Da qui poi si accedeva alla sala conferenze al piano terra; era lunga e stretta, alle sue pareti rosse scuro erano appesi dei tappeti e dei dipinti; sembrava molto stile da chiesa, oltre ad essere molto rigoroso[3].
il Suor Orsola era, ed è tutt’oggi, un antico scrigno di arte e tradizioni al servizio della cultura. Qui Klemperer incontrò, per la prima volta, gli studenti napoletani che se inizialmente lo stordirono con la loro vivacità, durante il corso delle lezioni gli dimostrarono un affetto profondo che l’autore portò per sempre dentro di se. Il fatto di essere i primi docenti di germanistica diede loro un fortissimo entusiasmo, che riuscirono a trasmettere ai propri studenti. L’unica critica che Klemperer mosse a Manacorda fu quella di abbracciare tematiche poco variegate durante le sue lezioni, soffermandosi eccessivamente sulla figura di Wagner. I due ebbero un rapporto molto complicato. Infatti, il filologo tedesco nei suoi diari rivelò di essere molto legato alla persona di Manacorda, ma di non aver mai compreso, pienamente, alcuni aspetti del suo carattere. Klemperer credeva che il suo eccentrico modo di vestire corrispondesse alla sua visione della vita. Come se i guanti bianchi, che Manacorda difficilmente toglieva, simboleggiassero la forte aurea di misticismo da cui era avvolto, come simboleggiava l’etimologia del suo cognome, “colui che ha il cuore in mano”.
Sin dall’inizio mi parlò dell’etimologia del suo cognome. Forse era “colui che ha una mano corta”, forse “colui che ha il cuore in mano”. Il suo zio spirituale, che era morto tre anni prima, ovvero il vescovo Emiliano, aveva nello stemma un cuore innalzato verso l’alto dalla mano con su scritto: Cor meum in manu Dei. Forse era così, anche Guido Manacorda sarebbe stato più felice se avesse scelto la carriera spirituale[4].
Egli, infatti, nutriva un forte interesse verso la filosofia ed il misticismo. Fu un intellettuale di primo piano nel periodo fascista, nonché collaboratore di grandi giornali («La stampa», il «Corriere della sera» e «La nazione»). Inoltre, strinse un forte legame di amicizia con Giuseppe Bottai e fu particolarmente attivo nelle relazioni con ambienti filotedeschi e con la Germania nazista. Nonostante le sostanziali differenze caratteriali che contraddistinsero le scelte di vita, Klemperer fu molto legato a Manacorda e fu, proprio, grazie a quest’ultimo, che conobbe Croce. Il filologo tedesco, nel suo Neapel im Frieden, scrisse che non appena entrò a casa del filosofo abbruzzese ebbe l’impressione di essere in un museo. Il lungo corridoio pieno di quadri e la luce fioca della lampada a gas, che illuminava la stanza in cui Croce riceveva i suoi ospiti, aumentava la tensione spasmodica provata dagli invitati in sua attesa.
Croce viveva a Trinità Maggiore, in un imponente palazzo; vidi delle scale e un corridoio in cui c’erano delle sculture che sembravano appartenere ad un museo. Ci aprì una ragazza che scomparve subito dopo. Ci togliemmo il cappotto, attraversammo tutto il corridoio pieno di quadri ed entrammo in una sala senza tappeti, rivestita da fredde mattonelle; una sala che la lampada a gas sopra il tavolo angolare non riusciva ad illuminare in tutti i suoi spazi. Al tavolo sedevano due uomini anziani e un altro più giovane; c’era un quarto uomo che aveva l’aspetto di un attore che, col capo chino, camminava su e giù con passo rimbombante[5].
Dalle pagine del filologo tedesco emerge chiaramente che egli, inizialmente, provò un certo disagio in quell’ambiente che lui percepiva freddo e austero. Per questo motivo lui e Manacorda si sedettero al tavolo, in disparte rispetto agli altri letterari. Poi apparve lui, «un uomo, massiccio, calvo, in vestaglia» a cui lo stesso Manacorda presentò Klemperer: «buonasera Croce e, indicandomi, questo è il mio lettore»[6]. Dopodiché il padrone di casa scomparve per poi ricomparire dopo alcuni minuti e presentare tutti gli intellettuali presenti. Curriculum Vitae è una fonte di inesauribile ricchezza contenutistica ed ha il grande pregio di mostrare il volto umano di Benedetto Croce. Quest’ultimo lasciò un’orma indelebile nella vita del filologo tedesco, non perché fosse un indiscusso punto di riferimento della cultura europea, ma per la sua personalità straordinaria, che nessun suo allievo riuscì ad eguagliare. Questo fu uno dei principali motivi per cui, almeno in età avanzata, il padre del liberalismo soffrì di una profonda solitudine culturale.
Col passare degli anni, è da dire, tutti questi giovani diverranno, nelle pagine di Croce, “i cosiddetti giovani”, ovvero «gli eterni giovani», spesso apostrofati con formule aggressivamente ironiche, come: “ Sentite, cari ragazzi”, “Avverto, a ogni modo, quei bravi giovani”, quasi a testimoniare la progressiva riduzione, in senso strettamente polemico, dello spessore metaforico della senilità, in quanto operante sistema di valori positivi[7].
In quegli anni, dunque, Croce sentì sulle sue spalle tanto il peso quanto la saggezza della senilità. «Il diavolo è vecchio, e voi siete pregati di invecchiare se volete intenderlo»[8]. Questa frase è l’emblema dei pensieri crociani di quel periodo che sembrano coincidere con il concetto novalisiano della senilità. L’Enrico di Ofterdingen è un meraviglioso Bildungsroman[9] che analizza tutte le fasi della vita umana. Quando Enrico, il giovane protagonista, incontra l’anziano eremita, quest’ultimo gli spiega che la percezione della vita varia in base all’età di ciascuno di noi. Infatti, da giovani spesso si agisce guidati più dall’entusiasmo che dal raziocinio. In età adulta, invece, si ha la maturità necessaria per contemplare la vita e giudicare le proprie azioni. Sono queste le parole con cui Klemperer descrisse il vecchio Croce:
Se non avessi saputo che aveva 48 anni, gliene avrei dati dieci di più; non solo era grasso ma anche un po’ molliccio, le sue guance penzolavano e la sua pancia, quando era seduto, formava dei rotoletti. E se non avessi saputo che era un filosofo creativo l’avrei scambiato per un ragioniere di Monaco; i suoi occhi grigi sono inespressivi, la sua bocca e il suo naso sembrano tutto fuorché ordinari. Una donna in là con gli anni portò a ciascuno un caffé e tutti tirammo fuori la nostra scatola di sigarette, tranne il padrone di casa. Egli batté le grosse mani per chiamare la governante, che arrivò poi portandogli una sola sigaretta passandogliela dalle sue spalle (come Albert Meyerhof secondo il ragazzo immaginario). Lo stesso successe più volte: l’isolamento dei visitatori e del gruppo di visitatori, la mancanza di un intrattenimento collettivo, il fumo, il caffé, la vestaglia. Tutto questo l’ho sempre riscontrato a casa di Croce, in guerra e in pace[10].
Klemperer, a casa Croce, inizialmente avvertì il profondo distacco che separava i seguaci dal padrone di casa ed, in un primo momento, attribuì tale atmosfera al difficile carattere di quest’ultimo: «mi sembrava che non fosse particolarmente caritatevole verso i più deboli. La dolcezza non faceva affatto parte del suo carattere»[11]. Probabilmente, l’impressione finale che Klemperer ebbe di Croce fu condizionata dalla momentanea tensione fra quest’ultimo e Manacorda, nata da una controversia riguardo una traduzione del Wilhelm Meister, realizzata da un protetto di Croce. Poi, durante una passeggiata con quest’ultimo ed “i suoi giovani”, ebbe l’opportunità di conoscerlo meglio e di cambiare idea sul conto del filosofo.
Io stesso riuscii per un po’ a stare di fianco a Croce. Mi sorprese il modo in cui conversava, così semplicemente e gentilmente naturale. Non c’era niente di quel filosofo che incideva sui suoi giovani, niente di quella fredda acredine, che notai in lui tempo addietro. Mi parlò calorosamente della sua amicizia con Vossler, del suo talento artistico, dei suoi lavori di filosofia del linguaggio. Poi il discorso andò sulla creatività linguistica del figlio di Vossler che ha appreso sia dal padre tedesco che dalla madre italiana[12].
Questa chiacchierata cambiò radicalmente l’opinione di Klemperer su Croce. Quest’ultimo, svestito della sua veste di grande letterato, si mostrò al filologo tedesco in tutta la sua fragilità. La vita di ognuno di noi è una costellazione di incontri ma solo i più importanti lasciano il segno. Karl Vossler lasciò un’orma indelebile nella vita di entrambi, congiungendo le strade dei loro destini.
Come dimostra il Carteggio Croce-Vossler[13], l’amicizia fra i due letterati era talmente profonda da resistere al cancro della guerra. Per questo motivo, ovviamente, il fatto che Klemperer fosse stato un allievo del Vossler fece nascere in Croce una simpatia spontanea verso di lui. Contrariamente a ciò che alcuni credevano, Croce, come Lessing, credeva fermamente nella perfettibilità umana. Infatti egli era convinto del fatto che ciascuno di noi, nell’arco della propria esistenza, potesse imparare dai propri errori e ricominciare daccapo, riprendendo la concezione faustiana dell’esistenza umana.
Evidentemente, tutti quelli che giudicarono Croce come una persona rigida, severa e schifa, non lo conoscevano bene o non arrivavano a comprendere la sua grandezza d’animo. Ad esempio, il filosofo ebbe parecchi screzi con Guido Manacorda a causa del carattere di quest’ultimo, come si evince da queste poche righe.
Manacorda si rivolse a me dicendomi che non riusciva a dormire né a lavorare per l’agitazione. Di nuovo ci facemmo via Partenope su e giù e di nuovo si lamentava del fatto che Croce fosse una persona senza cuore. «Ma che ha oggi con lui?» lo interruppi: «avete di nuovo discusso del Wilhelm Meister?» – «No, parlavamo di un artista che due anni fa uccise sua moglie per gelosia. L’uomo è stato in prigione e ora lavora di nuovo, si è reinserito nella società, ben predisposto di nuovo verso le donne. Come se non fosse successo nulla». Io dissi: «Non riesco proprio a capire. Aborro tutto questo». E Croce mi ha risposto: «Lei manca di buonsenso. Chiunque può ricominciare la sua vita daccapo»[14].
Con il passare del tempo Croce divenne per Klemperer un grande amico ed un punto di riferimento. Tanto è vero che, in tempo di guerra, quest’ultimo si recò dal filosofo abruzzese in cerca di conforto, stanco dell’ostilità di una buona fetta di italiani contro la Germania. Il padre del Liberalismo gli consigliò di non dare peso a coloro che, insieme alla Stampa, criticavano aspramente il suo paese di origine. Secondo la sua opinione, a dispetto di queste voci prive di fondamento, gran parte dell’Italia continuava a considerare i tedeschi come un popolo amico.
Leggendo queste poche righe del capitolo Neapel im Krieg, riusciamo a cogliere l’effetto benefico che le parole di Croce ebbero su Klemperer.
Una prima visita di cortesia di Croce mi ridiede un po’ di coraggio. Incontrai lui e sua moglie quasi da solo, l’unico ospite presente all’infuori di me rimase in silenzio per tutta la sera. Mi sfogai riguardo l’atmosfera ostile che si respirava ovunque. Entrambi mi consigliarono di non sopravvalutarla. Le immagini atroci non erano state prese sul serio da nessuno, e nella stampa di conto la volontà di pace avrebbe avuto la meglio. Tra gli intellettuali predominava l’opinione del legame con la Germania. Io manifestai i miei dubbi in proposito, raccontando le mie chiacchierate con Manacorda. Croce rispose alquanto aspramente che Manacorda era un uomo vanesio e poco chiaro. Invece di fare seriamente il suo dovere da professore, raduna intorno a sé, sempre con lo stesso seminario su Wagner, ammiratrici di ogni sorta e alquanto pochi ammiratori immaturi, e come finora si è atteggiato a letterato, così ora si atteggia a patriota e precursore degli Irredenta (coloro che stanno sotto un dominio straniero, ndt). Solo in un punto Croce era d’accordo con lui: anche lui criticava, per quanto riguarda la condotta della Germania, l’errore del beau geste. Però la critica che muoveva era amichevole e premurosa, e io mi sentivo protetto come se fossi stato a casa mia. Un po’ tranquillizzato da queste parole, cercai di rimanere impassibile mettendomi al lavoro[15].
È opportuno ricordare che casa Croce, in tempo di guerra, è stato un rifugio per molti letterati. Ad esempio, Gustav Herling definì casa Croce come una casa aperta, una casa europea aperta a tutti[16]. Lo scrittore polacco conobbe Croce agli albori della guerra e dai suoi insegnamenti trasse la forza per superare i momenti difficili.
La figura di Croce fu per lui, come per Klemperer, un’ indiscussa fonte di ispirazione e di conforto. Al fine di comprendere ulteriormente il legame esistente fra Klemperer e Croce si invita il lettore a procedere nella lettura della seguente traduzione, in cui ampio spazio è dedicato alla figura di Croce stesso.
Fonti: Croce Klemperer Vossler suor orsola benincasa
Neapel im Frieden
[1] Cfr. L. Trama, Un’ Opera Pia nell’ Italia unita : Il “Suor Orsola Benincasa” dall’ Unità alla nascita del Magistero, Napoli : Editoriale Scientifica, 2000 pp. 158-172.
[2] N. F.
[3] N. F.
[4] N. F.
[5] N. F.
[6] N. F.
[7] Cit. in E. Giammattei, Retorica e idealismo, Bologna, Il Mulino, 1987, p.154.
[8] Ivi.p. 157.
[9] Romanzo di formazione.
[10] N. F.
[11] N. F.
[12] N. F.
[13] Per un maggiore approfondimento di questa tematica si rimanda alla lettura del capitolo precedente di questo lavoro.
[14] N. F.
[15] N. F.
[16] Cfr. Marta Herlin, Intr. a G.Herling, Breve racconto di me stesso, Napoli, l’ancora del mediterraneo, 2001, pp. 33- 47.
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