martedì, luglio 20, 2010

Victor Klemperer Curriculum Vitae: Neapel im Krieg- Napoli in tempo di Guerra.

Victor Klemperer Curriculum Vitae: Neapel im Krieg- Napoli in tempo di Guerra.

“Adesso abbiamo un valido Ministero. Ci armiamo, e in primavera attacchiamo di sorpresa”. – “Contro chi?” – “Ma signore! (con un’inflessione che voleva dire: Come si può fare una domanda così infantile?) Contro l’Austria; è naturale”.

Questa era la prima vox populi che avevo udito in Italia stavolta. Per lunghi sei mesi mi sono chiesto ogni giorno se il domestico dell’Albergo Aurora in Verona avesse veramente formulato il pensiero comune del popolo e se non si fosse lasciato guidare, e quando alla fine di Aprile tornammo a casa durante la mobilitazione ancora segreta ma ormai evidente, non avevo ancora trovato nessuna risposta definitiva a questa domanda.

Durante il viaggio di andata ripensai alle parole dell’uomo in modo essenzialmente scettico, poiché nulla lasciava intendere che fosse in corso una preparazione militare, nessuna guardia alla stazione, nessun treno con soldati o merci militari. Fu così strano vedere il brulicare del trasporto di merci di guerra sulla strada attraverso il Tirolo austriaco dal cordone protettivo lungo il binario. Per il momento e molto probabilmente per lungo tempo l’Italia sarebbe rimasta ancora immersa in una profonda pace.

Ma questa era una triste pace, ovunque si percepivano le difficoltà dovute alla guerra circostante. A Peri avevamo dovuto sostenere non solo la revisione del passaporto che era a noi già familiare dal lato tedesco e austriaco, bensì anche un interrogatorio riguardante il luogo di provenienza e la destinazione del nostro viaggio; in seguito ci venne rilasciato un certificato di quarantena con l’istruzione di presentarsi al reparto di igiene del luogo di destinazione per cinque giorni. Di lì poi, grazie al mio posto universitario a Napoli, mi fu concesso di passare attraverso un unico corridoio per il municipio e di presentarmi di fronte all’impiegato più capace e cortese. Ma durante tutto il viaggio ci perseguitò ovunque nei treni un penetrante odore di disinfezione: si temeva l’importazione del colera. Il direttissimo per Roma e Napoli, adibito principalmente al turismo, non viaggiò, anche parecchi altri treni veloci dell’orario erano stati soppressi; mancavano non solo gli stranieri, ma anche il carbone.

Avevamo tempo a sufficienza, e viaggiammo a tappe.

Per quanto riguarda Firenze il nostro programma prevedeva un lungo soggiorno di studi. Non poteva essere che un bene visitarla un po’ in anticipo. In questo primo luogo di visita si sarebbe potuti restare per sempre: fino ad oggi non siamo mai tornati lì. Tuttavia, nonostante la forte preoccupazione per la guerra, a partire da quei tre giorni Firenze è per me una realtà nitidamente plasmata che riemerge spesso nella mia mente. Quando nel 1920 andammo a Dresda, l’espressione “Elbflorenz” era già da un po’ logora e per così dire tolta dalla circolazione. Ma in tutti questi venti anni da quando abitiamo qui ho spesso ripetuto questa espressione fra me e me e l’ho sempre considerata come un paragone legittimo. A volte questo paragone è motivato dal verde delle colline, altre volte dalla mescolanza fra grande e piccola città, fra la quasi fragile eleganza e la dignità maestosa, fra la raffinatezza dei musei e la vita che scorre naturalmente. Tra le immagini fiorentine mi si figura spontaneamente davanti agli occhi solo il Duomo e il Camposanto. Il duomo e soprattutto la sua splendida cupola con l’alternanza di lastre di marmo chiaro e scuro si conquistò subito la mia simpatia, così come la semplicemente colossale basilica di Pietro mi aveva raffreddato al primo sguardo. Il cimitero suscitò delle sensazioni contrastanti: sembrava arte – ma non aveva niente di arte, neanche un pochettino di natura. Veramente e in senso letterale un cortile-di-pace (il termine tedesco Friedhof significa letteralmente cortile di pace – ndt), completamente lastricato di marmo, senza tumuli, senza gli stretti interstizi tra le lastre di pietra che chiudono le tombe. L’insieme degli scuri cipressi formava un magnifico stacco netto con il bianco del pavimento di pietra e dei monumenti sepolcrali, ma i cipressi stessi davano l’impressione di non essere naturali, piuttosto stilizzati. Certamente avrei potuto annoverare fra le immagini fiorentine che mi vengono spontanee alla mente anche la Loggia dei Lanzi; ma fin dal principio la sua bellezza era offuscata dal ricordo della copia di Monaco, e lo è ancor meno da quando vedo che i giornali raffigurano come luogo di culto del più barbarico egoismo e dello smarrimento religioso più grigio i posti in cui si riuniscono i generali.

Sicuramente era in gran parte la paralisi del turismo la causa del fatto che la città ci appariva così tanto silenziosa. Soggiornavamo in una labirintica e quasi sontuosa pensione, che la signora Pastner ci aveva detto fosse molto frequentata. Le numerose stanze, il salone, la sala ristorante, la sala scrittura, le terrazze e il giardino recintato da un alto muro erano vuoti, e l’apolitica e sconsolata ostessa si lamentava amaramente del fatto che la guerra la avrebbe condotta a mendicare. Noi le promettemmo che di certo saremmo tornati in estate per alcune settimane, e io la confortai dicendo che in primavera sarebbe tornata la pace: “Al più tardi in Aprile, Signora, noi tedeschi entreremo a Londra come vincitori definitivi!” Sottolineai in modo così forte la mia certezza di vittoria per dovere patriottico, e in sostanza credevo veramente a ciò che dicevo. La Padrona rise malinconicamente, non si può mai sapere quando e come una guerra può terminare.

Nella nostra solita pensione Luccarini in Roma regnava quasi lo stesso vuoto e quasi la stessa desolante atmosfera. “Possibile che io mi trovi con l’acqua alla gola”, disse la proprietaria, “ma che tipo di vita ci aspetta dopo la guerra? Gli inglesi inveiscono contro i tedeschi, e i tedeschi inveiscono contro gli inglesi. Nella mia pensione ho sempre avuto tanti stranieri diversi, e tutti sono sempre andati d’accordo tra loro. Da ora in poi devo forse servire ogni nazione separatamente? Sono tutti persone, credono tutti nella giustizia, tutti sacrificano i loro figli – o le madri, professore, le povere madri!” All’epoca questo fervore di pace mi sembrava un po’ teatrale e un po’ dettato dagli interessi commerciali dell’Hotel; ma quando una dozzina di anni dopo lessi con entusiasmo il romanzo di Jules Romains Europagedichte ambientato al tempo della guerra – “Europe! Ils nous ferment la bouche; / Mais la voix monte à travers tout / Comme une plante brisepierre” (Europa! Ci chiudono la bocca! Ma la voce si innalza su tutto! Come le piante che crescono dalle rocce – ndt)-, mi sembrò come se avessi sentito la voce dell’Europarufer per la prima volta dalla bocca della buona signora Luccarini.

La maestosità di Roma le assegnava pienamente il diritto di essere la capitale; tuttavia gli stranieri sentivano, come a Firenze, che l’atmosfera non era assolutamente tranquilla, bensì agitata come durante una tempesta. Il nostro luogo preferito durante questo breve periodo di passaggio era il Café “Greco” degli scacchisti e degli artisti, a Piazza di Spagna, dove anche dopo durante le vacanze natalizie ci recavamo almeno una volta al giorno. “Faraglia” ci sembrava troppo mondano, “Aragno” lo odiavamo così come il quartiere principale degli Interventionalisti; il più tranquillo “Greco” invece aveva un paio di giornali tedeschi e della Svizzera tedesca, di tanto in tanto lì si incontravano anche dei conterranei e ci si scambiava con loro i giornali tedeschi di propria proprietà.

E ciò mi faceva estremamente bene. Infatti provavo dolore ogni volta che leggevo un giornale italiano; ciò era iniziato già a Firenze e proseguì per tutto l’inverno. Poiché il tormento si rinnovava più volte al giorno e poiché in sostanza ogni giorno leggevo sempre le stesse cose, con dei dettagli diversi e in vari toni, ma sempre le stesse, dopo un po’ di tempo cominciai a crederci, invece di essere apatico, ma in realtà quelle intense amarezze erano solo dovute a una pressione continua e un rimorso pungente. Quando nell’estate del 1915 nel diario italiano dei “mesi nel sud della Germania” descrissi i miei “ultimi mesi di pace in Italia”, parlavo naturalmente anche del comportamento della stampa; ma all’epoca mi sentivo in dovere di tacere su quella parte di articoli che mi procurava più dolore.

A prima vista sembravano un singolo flusso della malevolenza nei confronti della Germania; poco a poco scaturirono delle sfumature, ma la malevolenza nuda e cruda ebbe sempre la meglio.

In febbraio, prima della marcia della Camera, “Roma”, il giornale della stampa locale e scandalistica di Napoli, presentò una valida visione generale dell’intero lasso di tempo: “I tre correnti”. La prima di queste correnti, “alimentata da una sorgente maggiore”, era quella della brama di guerra. I diversi partiti che ne facevano parte avevano il desiderio di proteggere la cultura dell’occidente dal Teutonismo e dal Militarismo, regolare i vecchi conti con l’Austria, e far trionfare la giustizia in Europa. Di fronte a loro stava, ancora nella maggioranza e come partito di governo, la massa dei commercianti e degli industriali senza ideali, i quali speravano di fare i migliori affari con una neutralità armata e prudente. E infine c’erano i Neutralisti ad oltranza, un gruppo di feccia, i clericali, i quali volevano restituire Roma al papa, gli austriacanti, i germanofili, i compratori e gli schiavizzati.

Leggendo l’articolo mi chiesi perché non mi fossi accorto prima dell’esistenza di queste tre correnti. La riposta era facile da trovare. Il chiasso degli Interventionalisti si limitava alla incosciente stampa locale tipo “Roma” e imperversava in modo così fugace che io lo considerai irrilevante. Non sembrava forse una ridicola reminescenza di Waterloo, di quando i Russi avevano fatto bottino della macchina di corte e del mantello blu dell’imperatore, il quale si ritrovò in Occidente con indosso l’uniforme militare? La stampa amichevole tedesca a sua volta, come “Stampa”, “Concordia”, e il “Mattino” pubblicato a Napoli, non facevano soltanto parte della minoranza estrema, bensì erano anche più che prudenti nell’esprimere la loro amicizia con i tedeschi: essi trattavano un articolo “germanofilo” solo appena introducendolo e bilanciando accuratamente le parole con altrettante al fine di ottenere imparzialità.

Così la linea guida dell’opinione pubblica veniva stabilita dai giornali della corrente di mezzo, i quali per il momento rappresentavano l’opinione del partito al governo. Ma la loro neutralità nascondeva per me una pura ostilità e mi suscitò una avversione maggiore di una dichiarazione esplicita di guerra o delle affermazioni infantili della stampa radicale. A Monaco leggendo il “Corriere della Sera” avevo già imparato il modo in cui riconoscere questa falsa neutralità; ma allora ero del parere che Milano fosse una città mezza francese, e così la stampa principale milanese avrebbe potuto prendere una posizione specifica di favore nei confronti dell’intesa. Adesso vedevo che i grandi giornali romani come “Giornale d’Italia” e “Tribuna” si distinguevano appena dal “Corriere”. Certamente, i giornali non riferivano gli episodi più terribili – (invece di riferire che dopo la battaglia di Marne era stato fatto bottino dell’auto delle provviste, il “Giornale d’Italia” riportava: “Guglielmo II, Imperatore del Mondo” -, solitamente si minimizzavano i tedeschi, e si gonfiavano i successi del nemico, i titoli dei giornali favorivano sempre l’intesa, per le sue azioni di guerra e le sue sconfitte si avevano sempre toni di empatia, mentre il favore nei confronti della Germania veniva sempre espresso con delle espressioni scettiche e beffarde (la “grande vittoria tedesca”), il cui uso comune oggi rappresenta una caratteristica della stampa nazionalsocialista. Allo stesso tempo per me erano più imbarazzanti quelle malignità palesemente più grossolane e calcolate per la massa piuttosto che quelle nascoste e tagliate su misura per le persone colte.

Lo stimato professore di storia della letteratura borghese tedesca insegnava il cristianesimo delle popolazioni europee; lui trovava lo spirito cristiano dei Russi e dei Francesi di gran lunga più forte e profondo di quello dei tedeschi e degli Austriaci; e per quanto riguarda l’Italia, diceva, nel Cristo di Michelangelo abita non solo l’espressione massima del Bene, bensì anche la forza determinata di far prevalere questo Bene sul Male, e gli Italiani al momento adatto avrebbero dovuto regolarsi di conseguenza. Io annotai nel mio diario: “È ridicolo che ciò possa veramente sedurre una persona colta; d’altra parte è ovvio che a un borghese piacerebbe lasciarsi sedurre dalla propria materia di insegnamento”.

Molto più duramente mi colpì uno studio obiettivo che Ettore Janni pubblicò sul “Corriere” alla fine di novembre: “Inghilterra e Germania”. Egli concepiva l’intera guerra come una lotta tedesca-inglese per l’egemonia mondiale, e su questo punto basava la sua neutralità. Non consideravo come un’offesa il fatto che egli chiamasse la Germania come l’aggressore, nonostante io stesso fossi convinto della nostra legittima difesa; per il realista Janni la Germania era il giovane e forte sfidante del vecchio campione in carica. Ma si diceva anche che le piccole popolazioni europee avrebbero dovuto temere poco dalla vittoria inglese e tutto dalla vittoria tedesca, poiché l’Inghilterra non poteva e non voleva essere un tiranno assoluto. A lei mancava il potere per fare ciò, e avrebbe dovuto cercare degli alleati nel continente; e per quanto concerne la Volontà di Dispotismo, l’Inghilterra assomiglierebbe a un educato Governante il quale eviterebbe tutte le rappresaglie inutili in quanto poco eleganti. La Germania al contrario sarebbe un arrivista affamato pieno della ferocia più primitiva, e in caso di vittoria il suo potere non avrebbe barriere. Questo articolo mi ha perseguitato e ferito per mesi; lo consideravo molto malvagio e ingiusto – dentro di me non potevo mica considerarlo come totalmente menzognero e senza neanche un po’ di veridicità.

Questo è il tormento che all’epoca non riuscivo ad ammettere. Nei “Diari del sud Germania” ho espresso il timore che mi preoccupava già quando ero a Monaco: quanto a lungo poteva resistere la neutralità italiana alla pressione aperta e segreta che quasi tutta la stampa esercitava per spingere alla guerra? Ma a Monaco avevo letto solo il “Corriere” oltre ai giornali tedeschi. Certamente col tempo ebbi qualcosa da ridire anche contro la nostra stampa. Ma in generale si esprimeva perfettamente secondo il mio parere e il mio cuore: confermava la mia convinzione della inviolabile giustizia di ciò che la Germania stava facendo; ogni volta che ero un po’ giù confermava la mia sempre più profonda fiducia nel fatto che nonostante la Marne e tutte le sconfitte austriache prima o poi un giorno la vittoria completa sarebbe toccata a noi. E allora leggevo giorno per giorno ciò che si diceva in tutte le salse contro il diritto della Germania, e giorno per giorno ciò che metteva in dubbio la vittoria finale dei tedeschi. Tutto ciò mi sconvolgeva, per quanto io provassi a difendermi da ciò.

Il Café “Greco” era una vera consolazione, e in seguito a Napoli ci rallegravamo ogni volta che giungevano dei giornali da Berlino. Naturalmente le prime avvisaglie di ostilità da parte della stampa italiana ci colpirono duramente, e così trascorremmo i giorni fiorentini e romani dell’andata in una atmosfera abbattuta.

Ciò cambiò verso la fine del viaggio. Condividemmo il vagone fino a Napoli con un ecclesiastico e un capitano e intrattenemmo una conversazione con entrambi. L’amore per la pace e l’amicizia nei confronti dei tedeschi che il prete espresse ci meravigliò un po’, quella dell’ufficiale ancora di più. L’uomo era un ufficiale di riserva, era stato chiamato per una esercitazione, nella vita civile era un ingegnere. L’amore per la Germania che egli dimostrava non era certo minore di quello dei nostri amici Logatto e Fornello, e credeva che l’Italia avrebbe ricevuto delle concessioni dall’Austria in modo amichevole. Ci disse: “La maggior parte degli ufficiali, e non solo quelli della riserva, la pensano come me, e così anche l’intera borghesia. Al chiasso della stampa lei non dovrebbe dare nessuna importanza, il suo intento è solo quello di piegare l’Austria alla propria volontà”. – “E le manifestazioni avvenute a Roma, Milano e Genova, di cui abbiamo letto?” – “Per quanto riguarda quella di Roma ho visto io stesso: solo giovanotti, nessun uomo serio, una stupidaggine”. L’ecclesiastico confermò ogni parola dell’ufficiale, e noi giungemmo a Napoli confortati.

Qui la cosa che ci sorprese di più fu il fatto che eravamo poco sorpresi: “è come se fossimo stati non quattro mesi, bensì quattro giorni, come se in precedenza avessimo vissuto non un semestre, bensì alcuni anni a Napoli”. Accettammo le urla del portiere e del facchino ridendo, respingemmo il tentativo di imbroglio del facchino con così tanta forza nella seconda persona singolare, che il vetturino elogiò: “Ha fatto attenzione, Signore!”, e egli stesso non si fece problemi per la questione della mancia. Oltre ad essere abituati al chiasso alla stazione e alle capre nella Chiaja (quartiere napoletano – ndt) lo eravamo anche al maltempo, che ci accompagnò per tutto l’inverno. L’anno precedente avevamo avuto un maltempo di tre settimane ininterrotte. Stavolta il vento non soffiava di certo più debolmente, un giorno le onde si infransero perfino contro un lungo tratto del parapetto della banchina, e i pezzi che si erano staccati rimasero per settimane sul selciato; ogni tanto si interrompeva, a volte per alcune ore, a volte per alcuni giorni, a volte invece per mesi interi. Uno spettacolo veramente nuovo ci venne offerto un giorno di gennaio; allora il gelo era tremendo: sul Vesuvio la coltre di neve si estendeva dalla cima verso il basso molto più del solito, nelle strade più in alto della città una sottile lastra di ghiaccio resisteva ancora fino alle undici di mattina, “Roma” riferiva che nella notte un uomo era morto assiderato sulla strada provinciale – e nonostante tutto ciò i mandorli nel giardino fiorivano copiosamente e in perfetto stato.

Un po’ meno invariata rispetto alla città e alla natura era la vita nella pensione Pastner. Inizialmente, e solitamente anche in seguito, eravamo in cinque a sedere a tavola, come unico cliente fisso eccetto noi c’era un giovanissimo ragazzo svizzero, che per ora stava in silenzio, la cui presenza obbligava a parlare in italiano, e (una innovazione) che sembrava un padrone di casa accanto alla Padrona e all’Avvocato. La signora Pastner raccontò dell’atmosfera di ostilità concitata nei confronti dei tedeschi che c’era durante la prima settimana di guerra; lei aveva temuto un saccheggio e adesso chiamava la sua casa “Pensione Americana”, come pure la pensione Hipp accanto si chiamava “Pensione Inglese”. Ma adesso la situazione procedeva più tranquillamente, e con gli otto affittuari stabili sperava di riuscire a superare questo periodo difficile.

Purtroppo la tranquillità della signora Pastner non durò a lungo. In occasione di una terrina rotta le venne un attacco isterico; toccava a noi consolarla, spesso con un pagamento anticipato, spesso mettendo in conto un cibo molto discutibile. Ma avevamo una stanza particolarmente bella, la nostra ottava in questa pensione, e anche la nona e la decima, in cui noi soggiornammo dopo il viaggio natalizio, era molto spaziosa e si poteva ammirare tutto il suo splendore. Solo che questo splendore mi straziò il cuore come un rimprovero bruciante, quando un giornale proveniente dalle Fiandre riferiva a caratteri grandi: “Corre a rivi il sangue tedesco”.

Il massacro di Dixmuiden ci avrebbe costretto ad andarcene dalla pensione. A tavola citai in modo profondamente turbato il bollettino di guerra tedesco: “I nostri reggimenti andavano all’assalto cantando …”, io parlavo della moltitudine di volontari, in particolar modo anche degli studenti volontari, che servivano in questi “giovani reggimenti” e che ora giacevano sotto terra. Poiché il giardiniere che finora era rimasto in silenzio si intrometteva con parole di scherno, non lo colpiva il fatto che tanti uomini si lasciassero condurre verso la morte come una mandria, si compiaceva con l’intesa per il suo successo, era certo del fatto che se la pratica Inghilterra si impegnava, lo faceva solo perché sapeva che alla fine avrebbe vinto, e anche la Germania a breve avrebbe dovuto riconoscere ciò con le corna abbassate. Io risposi con grandissima esacerbazione e così aspramente che il giovane divenne rosso, ed ero preparato ad un attacco fisico. Io definii, passando dall’italiano al tedesco, basso, spudorato e abominevole il fatto che un tedesco possa parlare in modo tale; io avrei potuto non infuriarmi con un uomo così disonorevole, avrei preferito cercare un quartiere nel quale mi fossi seduto tra stranieri onesti. Con mia meraviglia e un lieve senso di vergogna il giardiniere rispose (persino in tedesco) con molta calma e con tono quasi amichevole, di essere un po’ pentito di ciò che aveva detto, e disse che sbagliavo a considerarlo tedesco; disse che era svizzero, e la Svizzera si sentiva minacciata dalla Germania; lui aveva anche parenti francesi da parte di madre, e aveva compiuto la formazione scolastica in Inghilterra. Ammirava la bravura degli inglesi, e gli sembrava inconcepibile che io potessi definirli impudenti. – “Ma loro non hanno nessuna pietà per il sacrificio dei nostri volontari?” – “Ma Lei non sa che dalla parte francese si combatte e si muore altrettanto valorosamente?” – Io ero turbato, non mi sentivo più completamente nel giusto, e mi occupai del centralino dei padroni dell’osteria.

In seguito il mio rapporto con il giardiniere migliorò, credo persino di aver esercitato un certo influsso pedagogico su di lui. Era ancora infantile per molte cose, e il suo vivace senso per la bellezza della natura e il suo grande amore per la patria si equilibravano con il punto di vista dell’utilità, verso cui si sentiva in obbligo. A sedici anni suo padre l’aveva mandato a Londra, e gli aveva accordato il mantenimento per dodici mesi, dopodiché avrebbe dovuto camminare sulle sue gambe. Lui conosceva il suo “vecchio”, e non aveva dubbio del fatto che dal tredicesimo mese si sarebbe dovuto guadagnare il pane da solo per non morire di fame. C’era riuscito, e ora dava valore solo al guadagno. Quando gli parlavo di altri valori e obiettivi, mi ascoltava tanto meravigliato quanto un bambino che ascolta le favole. Una volta disse: “Gli inglesi sono gli uomini d’affari più capaci che ho conosciuto finora; se i tedeschi vincessero veramente questa guerra, io li riterrei più bravi degli inglesi”. Dopo una pausa aggiunse: “Ma loro non devono conquistare la Svizzera”. Non lo si poteva distogliere in nessun modo dal pensare che essi avessero intenzione di farlo.

Per breve tempo comparve un connazionale del giardiniere, più maturo e di classe sociale più elevata. Conoscevamo Herrn Jenny già dall’anno precedente, durante il quale egli aveva soggiornato dalla signora Pastner. Adesso era sottotenente nella milizia svizzera ed era stato mandato a Napoli in congedo per il regolamento del suo incarico. Era un puro svizzero tedesco e senza preferenza per l’intesa, ma anche lui nutriva una profonda diffidenza nei confronti della politica tedesca e diceva che questa diffidenza era molto diffusa fra i suoi camerata e amici. Ogni giorno ci aspettiamo che i tedeschi ci saltino addosso – e se ci rilasciano quando ormai siamo stati inghiottiti e vengono riconosciuti veramente come vincitori?”.

Un po’ più a lungo di Jenny rimase la coppia Ceresole, proveniente da Venezia. L’omone biondo, a cui si leggeva in faccia l’origine tedesca, era medico e ricercatore in radiologia, e aveva avuto l’incarico da parte del governo di tenere un corso all’università; la sua minutissima moglie dai capelli neri accanto a lui sembrava un giocattolo, e lui l’avrebbe potuta portare sottobraccio a passeggiare tanto comodamente quanto era solito portare il suo piccolo carlino. Entrambi i Ceresole erano delle persone molto istruite e affabili; molto spesso intrattenevano conversazioni sulla letteratura, sulla tradizione e il dialetto veneziano, e quasi mai sulla guerra. Solo una volta la piccola moglie disse con tutta innocenza e in modo assolutamente pacifico: “La guerra è così noiosa. Se solo i tedeschi la smettessero, non vincessero e si arrendessero quanto prima, sarebbe meglio per loro e per tutti noi”. Io la considerai una vittima della stampa italiana e pertanto non litigai con lei. Prima che i Ceresole partissero, invitarono noi cinque a mangiare una cassata nel “Gambrinus”, l’unico grande Musikcafé di Napoli. La parte più infantile del giardiniere si manifestò quando lui guardò con aria raggiante la sua enorme porzione di gelato e disse con trepidazione che ne avrebbe potute fare fuori sei. “Accordato”, disse il dottore, “ma senza l’approvazione del medico”. Noi restammo a guardare con crescente stupore come il giovane raggiungeva le cinque porzioni, e ci stupimmo ancora di più quando il giorno seguente si presentò a tavola fresco e felice di mangiare.

Questa sera della cassata e l’ira della signora Pastner per la bella Americana sono in sostanza gli unici ricordi piacevoli che non hanno niente a che fare con la guerra, ricordi che custodisco del periodo compreso fra l’inverno 14 e il 15. Forse la padrona si irritava con l’americana tutta truccata solo perché lei evocava, nella sua mondanità e come ormai unico esemplare e totale eccezione, dei ricordi tanto dolorosi di una stagione diversa, forse la sua virtù andava veramente male. Ad ogni modo molteplici ammiratori la andavano a prendere, in abito civile o in uniforme; non c’era nulla da dire sul suo conto, e se si poteva dire qualcosa non era niente in confronto al vivace viavai dell’anno precedente. L’ultima volta che tre sottotenenti la vennero a prendere, scoppiò una vera e propria tempesta napoletana e la padrona usò una tale infinità di vere imprecazioni bibliche e bestemmie che io allora non sapevo riconoscere. Dopo l’esaurimento del suo lessico la signora Pastner concluse: “Alla prossima occasione attaccherò direttamente la persona”. E poi come un giuramento: “Lo farò, se mi offre ancora quindici Lire al giorno!” In quel momento il presunto lato da peccatrice sparì via da sé, senza che la padrona ebbe il bisogno di adempiere la sua minaccia o il suo voto, e nessun altro ospite tirato a lucido si presentò più. Per poter proseguire il mio Hotel-La Bruyeres dell’anno passato mi mancava tutto il materiale.

Del resto non avevo neanche voglia di farlo. Perché dall’inizio delle mie letture e in senso letterale dalla prima sera a Napoli in poi provavo imbarazzo per il mio posto. Trovammo un biglietto da visita: “Emma e Guido Manacorda la salutano di cuore e la pregano di accettare l’invito a prendere un tè per questa sera”. Ci rallegrammo dell’accoglienza amichevole e in ogni caso credevamo che quella casa delle bambole sul Vomero riservasse sempre una protezione sicura per noi. Non sapevamo se quella sera saremmo stati tra amici o nemici, ma ero perfettamente consapevole di non avere il dono della diplomazia. Da Manacorda incontrammo i nostri vecchi amici Fajella e Logatto, questi in uniforme da sottotenente, in più alcuni barbuti docenti universitari greci e un piccolo giovinetto di una eleganza così pulita che sembrava una caricatura di un giornale umoristico. Venimmo accolti calorosamente e messi subito a nostro agio, come ci aspettavamo. Poi il giovane ragazzo riprese la lettura di un manoscritto che era stata interrotta a causa del nostro ingresso. Il ragazzo si chiamava Annunzio Cervis, come ci avevano presentato, era studente di Manacorda e prossimo a stampare un libro ed entrare nella piccola cerchia delle stimate personalità letterarie. Ci lesse del modo in cui nel Café “Gambrinus” aveva chiesto spiegazioni a un Austriacante con il frustino. Per il frustino aveva bisogno costantemente della parola francese “cravache”; raccolse degli applausi particolari nel dire che il suo cravache fosse “flessibile come la codina di un maiale e Heinesca come il quadro di un viaggio”. Quando giunse alla fine, i barbuti ridevano e Fajella si divertiva, e Manacorda riteneva che fosse stata una performance spiritosa ed eccellente. Io non riuscivo a tacere. “Voi siete entrati nella triplice alleanza”, dissi, “e ora che noi ci troviamo a dover affrontare una dura battaglia, non ci volete aiutare”. “No”, rispose il piccolo in modo patetico, “il trattato andava contro il cuore dell’Italia e può anche non avere alcuna validità. Noi odiamo l’Austria e amiamo la Francia e la giustizia”. Gli altri lo contraddicevano, ma non in modo tale da appagarmi. Lui spera e crede con fermezza, che l’Italia rimanga neutrale, disse Logatto, lui stesso adorava la Germania, e tutti la ammiravano, “ma se dovessi comunicare ai miei soldati: <>, loro mi sputerebbero in faccia”. – “Per la Francia ho poca simpatia”, disse il greco, “ma mai e poi mai l’Italia può combattere contro l’Inghilterra, che è sempre stata bendisposta nei suoi riguardi”. – “E a chi dovete Venezia?” replicai. Fajella rise. “Si, all’epoca avete combattuto contro l’Austria, e adesso siete alleati con questa salma maleodorante”.

Io mi rivolsi a Manacorda: “Lei mi dovrebbe aiutare! Lei mi ha spinto a venire fin qui – sono forse in terra nemica?” Prima che Manacorda potesse rispondere per sé, gli altri assicurarono all’unisono che certamente non mi volevano offendere, parlavano unicamente contro l’Austria, io ero di sicuro tra amici, e Cervis aggiunse che sicuramente la Germania avrebbe obbligato l’Austria alla restituzione delle province italiane rubate. In sostanza era ciò che il gentile capitano sul treno mi aveva già detto, ma non con delle parole così estremamente incombenti. Risposi amaramente che da quando si era passato il confine non mi ero mai liberato della sensazione che l’Italia fosse appostata come… come… per fortuna il mio vocabolario italiano mi abbandonò qui, altrimenti mi sarebbe scappato di fare il confronto che da ora in avanti riemerge molto spesso nel mio diario: “come un avvoltoio!” (In alcuni giorni ricchi di eventi scrivo solo: “l’Italia continua a fare l’avvoltoio”).

Allora Manacorda prese la parola. Mi corresse ridendo con la sua risata più malinconica. L’Italia non è appostata, aspetta solo desiderosa che le sue province siano libere. I tedeschi, a prescindere dalla mia persona, sono affezionati agli Italiani, ma violano i sentimenti dei neutrali con le parole e con le azioni, “le beau geste”, infliggendo contributi di guerra alle città innocenti, non hanno preso le distanze dall’Austria per quanto riguarda l’Italia, hanno ferito il sentimento popolare italiano già nella guerra di Tripoli con la loro simpatia per la Turchia. Lui stesso non era favorevole al governo attuale francese, il quale manca di religione, ha molto da ridire anche sullo spirito inglese, e il medioevo tedesco e l’epoca umanistica tedesca e naturalmente anche il carattere tedesco di Wagner sono il suo grande amore, e lo renderebbe profondamente triste sapere che si dovrebbe veramente andare in guerra con la Germania, davvero non lo potrebbe prendere in considerazione – ma le province non libere… a questo punto mi venne in aiuto Fajella. In realtà, disse imperturbabilmente, anche Savoia e la Corsica sono non libere. “Si”, gridò Manacorda, “ma da lì non ci giunge nessun grido di dolore, e così è la Cura posterior”. Continuò a parlare ancora per un po’, parafrasando talmente tanto che la dichiarazione di amicizia per la Germania e l’odio irredentista contro l’Austria si equilibravano. Questa non era certamente la prima volta che parlava così: tutto gli usciva dalle labbra in modo viscido e forbito. Poco dopo lessi la lettera che aveva scritto a Vossler e che aveva pubblicato già prima di questa sera nel “Marzocco”: lì trovai scritti anche i passi principali di questo fiume di parole, naturalmente anche il grido di dolore che proveniva dal Trentino e da Trieste.

In sostanza tutte le mie conversazioni successive con Manacorda si distinguono poco da questa; solo che lui diventava sempre più violento nel suo sciovinismo e sempre più appassionato nella sua dichiarazione di amicizia, ora nei confronti della Germania in generale, ora, e col tempo sempre più spesso, nei miei confronti. A volte avevo l’impressione che recitasse una scena corneliana: l’ultima tenerezza per un amico, sul cui petto domani si punterà nel giorno della battaglia. Ma se questo era teatro, allora era il teatro dell’autosuggestione e della convinzione, e non ipocrisia.

Quando nei giorni più tormentosi ripenso ai discorsi di questa sera mi viene in mente la consapevolezza della mia mancanza di tatto. Il giorno seguente andai al consolato tedesco, per prendere lezioni di comportamento diplomatico. Il console generale Wewer, si diceva, era a Roma per motivi di servizio, ma il Viceconsole Dr. Töpke mi fece accomodare. Töpke aveva molte cicatrici ma il viso era buono e intelligente e il carattere affabile. Aveva più o meno la mia età, aveva lavorato nella legazione parigina fino allo scoppio della guerra, e noi chiacchierammo un po’ della Francia, dei nostri studi, della situazione della guerra. Ci sono senz’altro buone probabilità per noi, disse; la resistenza dei Francesi diminuisce, all’est si è un po’ retrocessi, per evitare l’inverno russo, là in primavera verrà fatto un bel lavoro, e anche con l’Inghilterra si verrà a capo nell’inverno stesso. In dicembre c’è nebbia e mare calmo, ed è certo che attraversiamo la Manica, sono già stati fatti tutti i preparativi, la cosa non è così difficile”. (Io annotai ciò con l’aggiunta: “Forse ha un po’ ritoccato il tutto conformemente al dovere, come ho fatto io nei confronti nell’ostessa a Firenze – ma mi ha comunque incoraggiato”). Poi giunsi allo scopo della mia visita: “Non mi volevo solo presentare, volevo anche chiederle dei consigli per quanto riguarda l’atteggiamento diplomatico a cui attenersi in questo periodo”. In realtà, disse Töpke, qui dentro non gli era concesso di sostituirsi al console generale, che forse avrebbe portato con sé delle nuove direttive da Roma, ma comunque mi avrebbe potuto orientare almeno un po’. Non era poi così difficile perché adesso regnava la calma e un atteggiamento moderato, dopo che all’inizio della guerra erano state dette peste e corna della Germania, e la stampa aveva grondato sangue. Ora qui a Napoli solo il “Roma” era ancora sanguinario. “Volevamo contrastare questo giornale e gli riferimmo la situazione delle distruzioni russe nella Prussia orientale. “Roma” pubblicò il tutto ma modificandolo in: ”. Oggi i giornali e le riviste illustrate come il “Roma” costituivano l’eccezione (naturalmente non troppo rara), inoltre l’esercito e la flotta non erano orientati verso la guerra – per quanto riguarda loro sarebbero potute arrivare nuove forniture di materiale bellico non prima di Aprile. Tuttavia è naturalmente nostro dovere tenere l’Italia possibilmente di buon umore, e per fare ciò si possono intraprendere contemporaneamente tre strade. “In primo luogo domandi sempre alla gente perché desiderano così tanto Trieste; dica loro che l’Italia ricaverebbe solo difficoltà dall’ottenimento di questa provincia, perché tutti i dintorni e l’intero hinterland della città sono slavi e ostili nei confronti dell’Italia. In secondo luogo diriga la fantasia dei suoi ascoltatori verso l’inglese Malta, che per i loro piani di potere è mille volte più importante di Trieste, e che essi possono conquistare molto facilmente se sono con noi e non contro di noi. E in terzo luogo – (ma questa è una informazione strettamente confidenziale, e nessun’anima sa ancora niente riguardo ciò, e sarebbe per gli Italiani una sorpresa sconvolgente, e lui, Töpke, mi fa questa comunicazione confidenziale sotto il sigillo della segretezza, e io non potrei sapere niente riguardo ciò, se il giorno seguente il console generale non mi confidasse niente di ciò, io naturalmente dovrei farne l’uso più prudente possibile) – in terzo luogo lei può accennare che forse l’Austria sotto una lieve pressione tedesca cederà il Trentino”. Dunque ero munito di materiale di pressione, che avrebbe potuto essermi utile a lezione e nelle conversazioni. Queste erano notizie che venivano spedite ogni giorno da Roma e da ora in poi giungevano anche a me; sul biglietto che le conteneva c’era scritto: “Noi là fuori”.

Dopo due giorni ricevetti ancora una volta gli stessi consigli dal console generale. Era affabile come Töpke, ma mi piaceva di gran lunga meno: la sua giovialità e il suo ottimismo risultavano troppo accentuate e artificiose. Mi chiedeva anche che io di tanto in tanto gli raccontassi cosa sentivo di interessante da Manacorda e dagli altri colleghi. Non avevo voglia di fare da rapportatore, il che si sarebbe potuto dire anche con nomi più brutti, e decisi di farmi vedere il più raramente possibile al consolato.

Sperimentai l’effetto dei tre punti prima di tutto con Fajella, durante una breve passeggiata a Largo. Mi ascoltò pacificamente e poi disse che si era già parlato a lungo della cessione del Trentino, ma senza Trieste non ci si accontenta, e ciò è ovvio; gli inglesi d’altra parte sono stimati da molti e sono immensamente rispettati da tutti, e loro non attaccherebbero mai Malta. L’oggetto del mio secondo tentativo era la signorina Diaz, la bibliotecaria, che nei dibattiti estetici dell’anno precedente aveva parteggiato con zelo e con competenza per il partito di Croce. Lei mi seguì senza un piacere evidente. “Se l’Austria restituisse veramente tutto ciò che ha rubato”, rispose bruscamente, “e non solo un pezzetto, neanche in questo caso mi accontenterei. Noi non vogliamo nessun accordo pacifico e commerciale con l’Austria, noi la vogliamo frammentare, e dobbiamo condurre questa guerra per diventare nuovamente una nazione forte”. – “La scorsa estate lei era pacifista, signorina”. – “Sì, in quel periodo non ero a conoscenza, il mio cuore non era a conoscenza di ciò che fosse la patria. Ora mi sono risvegliata”. Johanna Krüger mi scrisse in modo simile in luglio di essersi risvegliata dal mite cosmopolitismo. Ma oggi questo paragone si impone alla mia mente. All’epoca, nella biblioteca dell’università, lei era completamente lungi da me, e io pensavo solo: che fanatismo latino!

E ritenevo un fanatismo tipicamente latino anche i quadri tremendamente colorati delle riviste che erano appese in tutti i chioschi, e che proprio in una città brulicante di analfabeti – l’autore davanti al Teatro San Carlo era sempre assediato dai clienti -, proprio a Napoli avevano un successo enorme. Il Dr. Töpke stesso, sempre intento a ritoccare i fatti, al quale la stampa italiana sembrava moderata al momento e quasi realmente neutrale, aveva parlato con sdegno di questi quadri. Non erano certo delle caricature spiritose, bensì la rappresentazione della malvagità sanguinaria più cruda.

Il soggetto preferito (anche nelle cartoline) era Guglielmone, traducibile in tedesco all’incirca come Wilhelm der Geschwollene (Guglielmo il Grasso, ndt). L’imperatore, sempre contraddistinto dall’elmo con l’aquila e dai baffi, era raffigurato come un acrobata nudo, fatta eccezione per un costume da bagno portato a spalla, la sua pancia bilanciava l’asta che si ergeva, alla cui punta Franz Joseph si aggrappava come una scimmietta. Sotto c’era scritto: “Io lo reggo Beppo, ma tu?” Oppure l’imperatore raffigurato come enorme si stiracchiava con una enorme sciabola sul fianco tra le piccolissime figure di un francese, un inglese e un russo. Sotto c’era scritto: “Devo andare prima a Parigi, a Londra o a Pietroburgo?” – “Lascia stare, ti veniamo a trovare tutti insieme a Berlino”. Oppure un doppio ritratto: a sinistra Wilhelm mangia un globo fatto a forma di mela; a destra ha lasciato cadere la mela e sta accovacciato sotto le frecciate faustiane di un inglese vestito con la giacca rossa dell’esercito. Così erano le fantasie comiche, ed erano molto innocue a confronto con quelle tragiche.

Wilhelm e Franz Joseph camminano come scheletri con le borse da viaggio su un campo di cadaveri “verso la pace”. Wilhlem si rizza a sedere sul letto rigido come un palo, i capelli e i baffi arruffati, l’immancabile elmo con l’aquila sul tavolinetto da notte, le figure delle vedove e degli orfani apparsi in sogno si dirigono verso di lui con i pungi serrati e con i volti deformati. Wilhelm siede su una locomotiva, che taglia un mucchio di gente con le falci, sangue e pezzetti di carne restano appiccicati ai coltelli e alle ruote. Wilhelm come un serpente guizzante (naturalmente dotato di elmo con l’aquila) si avvinghia alle figure allegoriche del Belgio e della Francia, sulla nuca del serpente è conficcato un pugnale, il quale però sembra non avere nessun effetto.

Accanto a queste immagini fantasiose ce ne sono altre, che si spacciavano per fotografie o disegni conformi alla realtà. Qui veniva raffigurata spesso la cattedrale distrutta di Reims, e in molte varianti si vedeva la profanazione di chiese e monasteri tedeschi, si vedevano soldati tedeschi e austriaci che saccheggiavano, colpivano e torturavano orribilmente i prigionieri, e accanto i boia fumavano con animo sereno e ridevano per approvazione.

Tutte queste immagini trovavano il loro pubblico ad ogni chiosco e in ogni vetrina, sia persone lacere che benvestite. All’epoca conobbi la sensazione del disgusto di uscire in strada, che vent’anni dopo in Germani dovetti sopportare inghiottendo in continuazione. E all’epoca mi ripetevo, e il farlo mi consolava nei momenti di depressione, che così tanto sudiciume, bassezza e malignità da noi non sarebbero potuti esistere mai e poi mai. Nelle ultime settimane a casa mi sarebbe piaciuto leggere anche qualche giornale tedesco; allora la stampa tedesca mi sembrava ineccepibilmente pura, e a confronto con ciò che io vedevo qui, lo era veramente.

Una prima visita di cortesia di Croce mi ridiede un po’ di coraggio. Incontrai lui e sua moglie quasi da solo, l’unico ospite presente all’infuori di me rimase in silenzio per tutta la sera. I due Croce mi accolsero calorosamente; la signora, che aspettava un bambino, questa volta mi sembrò molto meno maligna nell’aspetto ed era senz’altro molto meno pretenziosa rispetto all’inverno scorso. Mi sfogai riguardo l’atmosfera ostile che si respirava ovunque. Entrambi mi consigliarono di non sopravvalutarla. Le immagini atroci non erano state prese sul serio da nessuno, e nella stampa di conto la volontà di pace avrebbe avuto la meglio. Tra gli intellettuali predominava l’opinione del legame con la Germania. Io manifestai i miei dubbi in proposito, raccontando le mie chiacchierate con Manacorda. Croce rispose alquanto aspramente che Manacorda era un uomo vanesio e poco chiaro. Invece di fare seriamente il suo dovere da professore, raduna intorno a sé, sempre con lo stesso seminario su Wagner, ammiratrici di ogni sorta e alquanto pochi ammiratori immaturi, e come finora si è atteggiato a letterato, così ora si atteggia a patriota e precursore degli Irredenta (coloro che stanno sotto un dominio straniero, ndt). Solo in un punto Croce era d’accordo con lui: anche lui criticava, per quanto riguarda la condotta della Germania, l’errore del beau geste. Però la critica che muoveva era amichevole e premurosa, e io mi sentivo protetto come se fossi stato a casa mia.

Un po’ tranquillizzato da queste parole, cercai di rimanere impassibile mettendomi al lavoro. Il secondo tomo del mio “Montesquieu” doveva essere impostato. Anche questo pretendeva troppo da me come il primo, nonostante trattasse solo ed esclusivamente dello “Esprit des Lois” (spirito della legge – ndt) e divergesse nettamente dai temi letterari a me familiari. All’epoca mancava lo stimolo di un termine di consegna stabilito. Perciò non mi concentravo a fondo e andavo di qua e di là indugiando, inoltre ogni giorno trascorrevo del tempo con Manacorda, che ci faceva sempre visita con ingenuità e cordialità, accompagnato a volte da Fajella o Logatto, a volte anche dal giovane Cervis; la lettura quotidiana dei giornali, le considerazioni sulle immagini e soprattutto la mancanza di decisione riguardo la guerra non trovavano un contrappeso sufficiente. Invidiavo il baffuto Terzaghi, ammiratore dell’Inghilterra e grecista, che a parte il suo seminario universitario aveva terminato le ventotto ore settimanali al liceo.

Finalmente il 25 novembre potevo almeno cominciare con la mia lettura. Questo inizio fu certamente il mio giorno più lungo e per così dire pubblico qui a Napoli, apparentemente un Dies ater, ma questo giorno si trasformò a passo di lumaca in un successo fortunato.

Sul portone dell’università venne verso di me un bidello, che sembrava mi stesse aspettando, e che mi chiese con agitazione se non preferissi tornare indietro. Sul pianerottolo del secondo piano c’era il pingue Dr. Jungano, direttore della segreteria, dal viso amichevole meno imperturbabile del solito. Il fatto che lui mi stesse aspettando non era tranquillizzante, mi consigliò di rinviare la lettura. Io risposi che trattava di un tema apolitico innocuo; se non c’era nessuna proibizione da parte del rettorato, volevo iniziare. Lui diede un’alzata di spalle e mi accompagnò dentro. Mi assegnarono una lunga stanza a camera d’aria con circa ottanta posti a sedere, la cui unica porta non si affacciava direttamente sul corridoio, bensì in una grande stanza antistante; la cattedra stava davanti alla porta, molto lontano dalla parete posteriore. Tutti i posti erano occupati, inoltre numerosi studenti si spingevano appoggiati alle pareti dell’aula e nella stanza di passaggio. Qui vidi anche un gruppo di cinque o sei bidelli. Appena entrai con Jungano cessò il chiacchierio che facevano l’uno con l’altro. Mi diressi velocemente verso la cattedra, mentre Jungano rimase appostato accanto alla porta, e cominciai con più disinvoltura possibile.

La mia introduzione era molto simile a quella dell’anno precedente, solo che ora non avevo più bisogno di aggrapparmi al manoscritto. Proprio davanti a me al centro della prima fila sedeva Logatto nella sua uniforme, la spada alla cinta, un paio di banchi dietro di lui attirò la mia attenzione un giapponese grassottello, in tutta la sala e anche tra le persone in piedi notai degli studenti preti con le sottane nere, molti visi di campagnoli rozzi. Manacorda non era presente. All’inizio andava tutto bene, poi nella stanza di fronte qualcuno alzò la voce; i ritardatari cercavano di entrare, udii dei passi, lo sbattere della porta esterna. Ciò portò scompiglio nell’aula, un paio di astanti si voltarono e fischiarono. Avevo l’esperienza dell’anno precedente – “la tranquillità non sta da nessuna parte, professore” – e ripresi il mio discorso, a voce alta, ma pacata. Allora uno degli studenti preti si alzò gridando minacciosamente “silenzio!”. Immediatamente scoppiò un tumulto, io riuscii a sentire tra le grida generali “Viva il Belgio! – Viva la Francia! – Abbasso l’Austria!” e “Vogliamo Trieschte!”, soprattutto e di continuo “Vogliamo Trieschte!”. Ma nessuno tentava un assalto alla cattedra, la scena mi sembrava una napoletanata abbastanza innocua. Proposi una pausa di alcuni secondi, e chiesi di lasciarmi la parola per pochi secondi prima di continuare a protestare. Divenne tutto tranquillo, e dissi di essere solo un povero filologo che non poteva restituire loro Trieste, perché non mi apparteneva, e poi, continuando in modo serio e incisivo, che stavo qui per incarico del ministero, per insegnare loro un po’ di tedesco, quindi dovevano lasciare da parte la politica e onorare l’università come luogo di pace e di scienza, e infine, con nuova verve, confessai di aver preteso di cominciare la mia lettura malgrado gli avvertimenti, confidando pienamente nella cavalleria italiana, la quale non riuscivo a credere che ammettesse di deludere o offendere. Le mie parole fecero effetto.

Il giapponese grassottello si alzò per metà dal suo posto e disse con tono amichevole e risoluto: “Il professore ha ragione; si deve separare la scienza dalla politica; sono venuto fin qui per imparare il tedesco”. Allo stesso modo uno studente italiano si alzò dal banco e mi rivolse la parola in tono cortese e con parole ben formulate: nessuno pensava di offendermi personalmente, e soprattutto l’entrata non era diretta contro di me, bensì ai malintenzionati tra i commilitoni, i tedescofili. Volevo rispondere placando gli animi e speravo senz’altro di condurre l’imprevisto verso un lieto fine.

Ma proprio in quel momento Logatto ribollì d’ira. Si alzò di scatto, si piazzò davanti la mia cattedra, strinse l’impugnatura della spada con la mano sinistra, stese la mano destra verso gli ascoltatori e si scagliò sui manifestanti con parole ardenti; loro ferivano la dignità accademica e il diritto di ospitalità, erano maleducati e immaturi, non capivano niente della politica né della scienza, non si dovevano ritenere studenti, bensì tranvieri, nient’altro che tranvieri! Questa era l’offesa più grave che gli poteva venire in mente, e a queste parole ci fu una esplosione.

Non solo cominciarono ad urlare, tutti si alzarono di scatto dai banchi, si spinsero in avanti, le altre grida vennero coperte dal grido “Spia tedesco!”. Non si riusciva a stabilire se contasse più la “spia”, l’assalto a Logatto o quello alla mia persona. Prima che i selvaggi raggiungessero la cattedra, da entrambe le parti del tenente si dispose una catena di robusti studenti preti, le sottane buttate all’indietro, i pugni serrati. Tutto ciò aveva un effetto così comico, militanti ecclesiastici sotto una guida militare, io mi rendevo conto che non c’era nessun pericolo, bensì mi interessava osservare dalla mia posizione rialzata lo scoppio della rissa. Restai indisturbato solo per pochi momenti, quindi i bidelli che stavano nell’anticamera entrarono velocemente e con destrezza mi fecero largo in fretta, mi circondarono e mi condussero fuori verso la segreteria.

Lì si presentò Jungano; mi disse che aveva previsto la catastrofe, comunque era andato a finire tutto bene, senza nessun vetro rotto e senza che nessuno si fosse fatto male, inoltre non credeva che avessi conquistato la simpatia degli studenti, quindi mi consigliò di tornare a casa passando per il retro, poiché i manifestanti stavano ancora davanti l’università.

Non appena al ritorno in albergo raccontai tutto a mia moglie con aria abbastanza preoccupata, Manacorda si mostrò molto agitato e traboccante di cordialità, come dovesse rendere conto a me e scusarsi. Ci disse che dopotutto, andava detto, si era trattato di una ragazzata impertinente, che nessuno avrebbe preso sul serio, e io stesso mi ero comportato bene. Non dovevamo starcene in casa a rattristarci, bensì salire su da lui a prenderci un tè, ci prometteva una buona compagnia.

Di sopra incontrammo un nobile colonnello, comandante di un nobile reggimento di artiglieria, che con la stessa ammirazione e simpatia parlava della Germania e manifestava lo stesso carattere pacifico e la stessa convinzione della neutralità duratura dell’Italia, che io avevo già udito da delle bocche militari. Ma qui per la prima volta ascoltavo queste parole da un ufficiale anziano e di grado elevato. Il colonnello si espresse su Logatto ridendo, il comportamento del giovane gli sembrava comprensibile e simpatico, certamente ciò gli sarebbe potuto costare una sgridata, e la proibizione di continuare a seguire le mie lezioni. (Ciò sarebbe accaduto comunque, la proibizione fu estesa a tutti gli ufficiali e ai laureati che facevano parte dell’esercito qui a Napoli). Ancor più rassicurante del colonnello fu Ruta, che avevo visto solo una volta l’anno precedente presso Croce e che adesso conoscevo più da vicino. Ruta era un letterato e un bohemien di mezza età, dai capelli scuri, focoso e vivace; le sue grandi mani, che teneva sempre dentro dei guanti bianchi di lana – non so per quale motivo, Manacorda lo chiamava sempre “Ruta ai geloni”, quello con i geloni -, le sue grandi mani si agitavano davanti al mio viso, pesavano sulle mie spalle, si aggrappavano ai bottoni della mia giacca, mi parlava così appassionatamente del suo entusiasmo per Gett e Eckel, con i quali voleva indicare Goethe e Hegel, per tutta la Germania intellettuale, per la Germania in generale, della sua rabbia nei confronti della sciocca manifestazione, e si augurava il meglio per me. Poi mi consultai sul proseguimento delle mie lezioni. Manacorda mi propose una pausa di una settimana, così che tutto si aggiustasse da sé. Io disapprovai. Qualora il rettorato non avesse interferito, sarei tornato nuovamente in cattedra. Manacorda e il suo inseparabile Fajella avanzarono delle riserve. Il rettore non si sarebbe pronunciato e si sarebbe tenuto in disparte per paura – avevano pienamente ragione riguardo ciò -, sarei stato ritenuto responsabile se fosse avvenuto un nuovo tumulto e avrei dovuto pagare i danni. Io perseverai nel mio proposito e il giorno dopo lo misi in pratica.

Ancora una volta l’aula era piena fino all’anticamera. Ancora una volta c’erano dei bidelli pronti ad intervenire, però regnava un silenzio totale. Non appena salii in cattedra partì un applauso scrosciante. Era come se si fosse scommesso sul mio venire o non venire. Dissi che non ero un tenore, bensì solo, come avevo già sottolineato il giorno precedente, “un povero filologo”, e allora cominciammo ad esercitarci: “mia zia ha un ombrello, e mio zio ha un portapenne”. Una risata, e tutto andò bene.

E così fu per tutto l’inverno. È anche vero però che la segreteria prudentemente spostò tutte le mie ore di lezione dal pomeriggio alle otto di mattina, perché a quell’ora c’erano solo quelli che avevano voglia di lavorare e non gli studenti che avevano solo voglia di fare delle manifestazioni. Il mio uditorio diminuiva sempre di più, ma non svaniva del tutto come era accaduto l’anno precedente, e si dimostrò anche più assiduo. Ciò non era dovuto alla politica, perché chi veniva da me ora rinunciava a una professione di fede. Io potevo parlare liberamente e di tanto in tanto coglievo l’occasione per accennare un po’ di propaganda per la Germania all’interno della lezione di lingua straniera. Ciò veniva sempre ben accetto, mi chiedevo solo se avesse senso perché da me venivano solo quelli che già da prima propendevano per la Germania.

La manifestazione si era svolta in modo molto innocuo, ma in realtà non rimase una questione interna solo all’università. “Roma” gonfiò l’articolo in modo eccessivo: “Gli studenti troncano le parole in bocca a un professore tedesco”. Si parlava delle “frenetiche grida Abbasso la Germania”, nonostante ci si era limitati all’ormai consueto sberleffo all’Austria. Venni convocato per iscritto dal consolato generale. Wewer aveva un documento davanti a sé e mi chiese una relazione dettagliata con un’espressione molto preoccupata. Poiché nel frattempo tutto si era rimesso a posto e mi era rimasta impressa la piacevole serata trascorsa da Manacorda, raccontai nella mia relazione anche la comica dell’incidente. Il console si annuvolava sempre di più e disse alla fine di essere contento che il tumulto fosse stato irrilevante o che io ad ogni modo lo ritenessi così lieve e non, come lui temeva, tragico. Avrei dovuto mettere per iscritto ciò che gli avevo appena raccontato in una “relazione per il governo”, perché sembrava che stessero nascendo delle relazioni migliori tra Italia e Germania, e ogni cosa che avesse potuto turbare questa relazione doveva essere evitata.

Mi sentivo piacevolmente lusingato per via di questo incarico e scrissi la relazione. Dopo non pensai neanche più che mi trovavo nella tanto agognata posizione dell’occupatissimo Terzaghi.

Anche ciò che segue dipendeva dalla dimostrazione, cioè dallo sforzo di Manacorda di dimostrarmi amicizia e aiutarmi . Al Suor Orsola c’era bisogno di un docente per il francese, perché il precedente era stato chiamato dall’esercito francese. Manacorda era il consigliere della principessa Pignatelli, la patrocinante dell’istituto, lui insegnava anche lì, io inoltre non ero più solo insegnante di tedesco, bensì docente privato di filologia romanza: quindi mi fu offerta la successione alla cattedra di francese.

Il Suor Orsola era un cosiddetto istituto pareggiato, vale a dire: messo sullo stesso piano degli istituti statali. Al piano superiore l’istituto formava le professoresse, che in una scala basata su rango e formazione stavano tra insegnanti elementari e liceali. Per queste classi era richiesta la conoscenza della lingua francese, in sostanza si trattava di introdurre le ragazze allo studio della letteratura francese, principalmente quella classica. Mi furono assegnate sei ore di lezione settimanali in tre classi diverse, ero molto lieto di poter ampliare la mia attività e la mia esperienza, ma anche un po’ impaurito, perché non avevo mai insegnato la letteratura francese prima di allora, e più dell’esposizione in lingua francese mi spaventava la spiegazione italiana dei testi francesi, il vero e proprio fulcro della lezione.

Ogni lezione mi costava anche una lunga preparazione e le mie giornate erano completamente piene. Tuttavia rispetto alle altre lezioni in questo caso avevo il vantaggio di molti anni di servizio alla scuola dell’obbligo dietro di me e il fatto che solitamente le ragazze, principalmente di un’età compresa fra i diciotto e i venti, si comportavano in modo più tranquillo degli studenti universitari. Inoltre mi sembravano anche più assidue e non si distraevano, il loro testo preferito era il “Cid” e il “Femmes savantes”, mi ascoltavano con la massima concentrazione durante la lezione. Ma il loro sapere era incredibilmente fragile, zoppicavano su tutto. “Il a vendjou ses livres”, diceva la Milisci, come se pronunciasse una u inglese. “Il a vendu, Mademoiselle, ripeta”. La bella signorina ripete piena di buona volontà come un bambino, ma dice ancora una volta “vendjou”. “Forse qualcuna di voi viene da Torino?” – “Io, Professore!” – “come pronunciate a casa vostra fortuna e sicuro?” – Il loro volto si illuminò: “Fortüna, sicüro”. – “Ora ripetete allo stesso modo: vendü” – stessa luce sul volto: “vendjou”. Così era per la pronuncia, così per la grammatica e così più che mai per l’interpretazione dei testi e delle mie esposizioni e anche per i discorsi liberi riguardanti le lezioni private, che ricevevano più complimenti che critiche.

Combattevo tutte queste difficoltà, non ancora pienamente consapevole del livello basso delle mie scolare (no: laureande!), quando giunse una lettera emozionante e misteriosa proveniente da Monaco. Muncker scriveva che il ministero della pubblica istruzione aveva richiesto alla facoltà la relazione sulla manifestazione avvenuta nel mio corso, per la quale si lodava il mio “comportamento discreto”, e che aveva fatto una impressione positiva alla facoltà, impressione che prima o poi avrebbe portato i suoi frutti. “Veda solo di pubblicare il suo secondo tomo del “Montesquieu” a breve – nella filologia romanza non mancano le possibilità!”. Subito dopo ricevetti un chiarimento da Vossler. Il suo messaggio giungeva da un campo di esercitazioni militari presso Strasburgo, dove egli addestrava reclute di una batteria pesante. Lui giudicava che ciò fosse molto meno interessante della sua attività a Monaco, ma pur sempre più piacevole della mia a Napoli, dove lui, Vossler, si “sarebbe arrabbiato da morire con Manacorda e la chiassosa studentesca e tutti quanti”. Tuttavia mi sembrava di stare abbastanza bene qui. La cattedra all’università di Posen mi era stata proposta con affetto. Sarebbe stato un vantaggio per me se il mio Montesquieu fosse progredito.

Sentii delle frustate lungo la schiena. Per dirla in altro modo: non volevo andare a Posen. Ma senza questo stimolo non avrei mai e poi mai realizzato il mio secondo tomo nei pochi mesi invernali; e non lo avrei completato, e non sarebbe mai stato completato, perché sarebbero dovuti passare quattro anni prima che io mi rimettessi nuovamente a produrre seriamente. E anche se è solo un mio pensiero soggettivo il fatto che questa opera valga qualcosa, tuttavia so che in fin dei conti dovevo la mia cattedra a lei e di conseguenza la terra sotto i piedi e la libertà interiore.

In un attimo mi ritrovai in una situazione imbarazzante. Se mi fossi immerso nella stesura del libro, vale a dire ciò che mi sembrava fosse il mio dovere principale, allora non avrei potuto continuare il travagliato insegnamento nell’istituto Suor Orsola. Proprio quando parlai a Manacorda delle mie intenzioni di dimettermi, cominciò ad agitarsi e si offese profondamente. Lui aveva voluto darmi una dimostrazione di fiducia e di amicizia tramite l’offerta di questo impiego. E come avrebbe reagito la buona principessa? Dopo le prime ore di lezione mi aveva pregato di potermi ascoltare una volta, si era seduta all’ultimo banco mentre spiegavo una scena del “Cid”, mi aveva stretto la mano e mi aveva lasciato detto tramite Manacorda quanto fosse contenta e quanto si fossero dimostrate contente le ragazze. E ora dovevano essere deluse? Impossibile! Sarei dovuto restare. Dissi che non avevo ore a sufficienza per ottenere risultati dalle ragazze. Allora Manacorda si infervorò contro la mia pedanteria. Avrei dovuto rendermene conto già da tempo di quanto poco le ragazze sapevano, le mie lezioni erano troppo difficili, dovevo spiegare loro le cose in modo più semplice e infantile, perché era meglio così. Mi lasciai convincere a tenere fede provvisoriamente al mio incarico.

E poi l’incarico provvisorio divenne uno stato permanente. Ciò era dovuto a due motivi.

Per prima cosa riscoprivo un certo piacere nello svolgere questa attività. Mi piaceva camminare da solo sulla salita, dove anche in inverno c’erano degli splendidi giardini e un panorama magnifico. Ma anche alla lezione stessa, che ora improvvisavo in gran parte, tutto andava bene: le ragazze mi erano riconoscenti, e anche la principessa, che prendeva parte a molte lezioni, lo era, e io stesso ne guadagnai esercizio e abilità linguistica e inoltre comprendevo qualcosa in più della mentalità degli italiani. Di certo mi rimproveravo spesso, e nel diario scrivevo che nel Suor Orsola insegnavo con molta incoscienza, ma Manacorda mi canzonava e mi ripeteva in continuazione che il mondo intero era contento di me, e agli esami le professoresse esordienti avrebbero saputo al massimo la metà di quello che io avrei chiesto loro, e tuttavia avrebbero ricevuto i loro “punti”. (Ciò l’ho sperimentato solo nel solo caso eccezionale della Milisci, perché all’epoca degli esami generali già non ero più a Napoli).

Ma ancor più del piacere provato nel fare la cosa stessa mi tratteneva maggiormente la paura delle ore di disoccupazione, sulle quali la pressione della guerra gravava sempre di più. Inoltre il lavoro al mio libro era troppo pesante affinché io potessi riuscire a stare per più di al massimo tre o quattro ore con la giusta concentrazione. Mia moglie mi dice spesso che in precedenza riteneva che l’espressione “mi fuma il cervello” fosse una pura e semplice metafora, ma durante questo inverno a volte, quando meditavo su un capitolo particolarmente importante dello “Esprit des Lois”, vedeva salire dai miei capelli delle nuvolette di fumo.

Così ero molto impegnato, e dovetti rinunciare alle molte passeggiate e agli studi sulla natura e sui luoghi che invece avevo potuto fare l’anno precedente. Avevamo solo l’abitudine di fare una passeggiata mattutina di domenica al museo nazionale. Tra i visitatori non mancava mai la numerosa popolazione rurale, intere famiglie molto numerose, vestite con pittoreschi costumi folkloristici. Eravamo abituati a recarci soprattutto nelle stanze pompeiane. Sembrava come passeggiare davanti le vetrine di una strada di Leipzig dell’antico impero. Gli oggetti principali e quelli di lusso della quotidianità romana erano esposti in mille varianti. Recipienti di vetro dai colori dell’iride, un tegame elegante con lunghi manici decorati, dai quali si serviva direttamente, lumi, tavolette per scrivere, collane color rosso pallido, braccialetti, anelli di ogni tipo, da quelli con su impressi i più importanti sigilli, quelli delle più alte cariche, che avevano la forma degli anelli, ma che difficilmente a causa del loro peso potevano essere indossati, fino a quelli più sottili per le ragazze e i bambini, statuette, ninnoli a forma di animali domestici dalle forme semplici e stilizzate, simili alle porcellane di Copenhagen. Ci dispiaceva il fatto di non aver ancora mai visto i reperti archeologici a Pompei. Poiché da Napoli a Pompei il viaggio era abbastanza lungo e la gita richiedeva un giorno interno, finora l’avevamo sempre rimandata; tuttavia durante le ferie non eravamo mai andati a Pompei perché trovandosi relativamente vicino a Napoli rispetto a molte altre località italiane ogni volta decidevamo delle mete più lontane. Ogni volta ci ripromettevamo di farlo, ma poi non riuscivamo mai a decidere un giorno.

Durante le vacanze di Natale andammo a Roma e restammo lì per tutto il periodo, dal 19 dicembre al 10 gennaio. Soggiornavamo presso la signora Luccarini, come era presso la signora Pastner, e come a Napoli mi sedevo ogni giorno a scrivere il mio “Montesquieu”.

La ripetitiva e alquanto discutibile esecuzione al pianoforte e i canti dell’argentina tutta agghindata non mi disturbavano, da quando lei con una parola aveva conquistato il mio cuore. La parete del salone sulla quale era accostato il pianoforte corrispondeva a quella della nostra stanza, e nel passare le avevo lanciato uno sguardo leggermente amoroso. Allora lei disse molto semplicemente scusandosi: “Je travaille, Monsieur” (io lavoro, signore – ndt). Era una soubrette del varietà, viaggiava di regione in regione con la sua rugosa madre dalla pelle color verde oro, non si considerava né una artista né una sirena e si esercitava tutti i giorni per il suo numero in stile circense. Così lavoravamo entrambi parete a parete.

I timori della padrona si avveravano solo in parte, il più delle volte sedevano a tavola dodici ospiti – lo so perché quando un giorno apparve un tredicesimo, entrambe le argentine si alzarono immediatamente e si lasciarono servire il cibo nel salone. Cominciammo a parlare solo occasionalmente con una francese corpulenta di mezza età, amante del cibo, simile a un personaggio di Rabelais. Parlava senza sciovinismo, provava compassione per il mondo intero a causa della guerra e soprattutto per se stessa. Aveva udito le cannonate della battaglia della Marne, aveva visto anche la devastazione, non aveva potuto tollerale tutto ciò ed era fuggita in Italia, per vivere di nuovo dignitosamente. Lo aveva fatto con piacere, e io mi chiesi se anche io fossi un fuggiasco egoista. Il fatto che a me mancasse il piacere era solo una magra consolazione, e la guerra ci accompagnava costantemente. Proprio la prima sera udimmo del chiasso nelle strade, e guardando fuori vedemmo che da un mucchio di gente provenivano delle grida ritmate che dicevano “Abbasso l’Austria! Abbasso l’Austria!”. La sede della legazione austriaca si trovava vicino al nostro albergo.

Il Natale trascorse in modo poco lieto. Per la notte santa non avevamo trovato nessun albero di Natale (ma il giorno dopo ne riuscimmo a trovare uno piccolissimo), e faceva un freddo terribile, più terribile di quello dell’ultimo inverno a Parigi, sebbene piovesse a fiumi e tuonasse di frequente. Si comprende com’è il vero freddo solo quando si va al sud.

Questa volta studiammo la città in modo approfondito, visitando i musei e le chiese, assistendo spesso alla pittoresca alta marea del Tevere dorato – ma il sentore della guerra era sempre con noi. Nel Café “Greco” leggevamo i giornali tedeschi; raccontavano cose poco piacevoli, e quel poco diventava completamente spiacevole grazie alla stampa italiana e alle pagine riguardanti l’intesa. Il principe Bülow si trovava a Roma come inviato speciale tedesco, e ogni giorno si diceva che la sua missione falliva, il che si comprendeva dal fatto che continuasse a restare. Più dei racconti o delle bugie riguardanti gli avvenimenti militari e diplomatici mi toccavano le eccessive riflessioni generali. Il “Giornale d’Italia” riferiva un colloquio del suo corrispondente con “un alto ufficiale russo”: il generale aveva detto che la Russia avrebbe vinto alla fine, perché la natura dell’uomo russo, l’elemento-uomo, è più forte dell’automa tedesco, la macchina-uomo tedesca. In un giornale inglese si vedevano dei minatori russi, accompagnati dai loro parenti, che marciavano verso l’arruolamento contenti ed entusiasti; nell’immagine sotto si incitavano a vicenda a combattere “for the freedom of Europe” (per la libertà dell’Europa – ndt). Mi ripetevo in continuazione che in Germania viveva una umanità migliore, e il destino buono mi aveva lasciato venire al mondo come tedesco.

Nel numero di natale del “Messaggero” c’era il canto d’odio all’Inghilterra “del famoso e terribile poeta Ernesto Lissauer”. Non so se dipendesse dalla magniloquente traduzione o dal giorno di Natale: la poesia non mi piaceva più come prima. Non appena entrambi gli idealisti americani dell’anno precedente, il poeta e lo scultore, riapparvero al Café “Greco”, cominciammo a dibattere su questi versi. Entrambi li giudicavano completi, e l’americano tedesco spiegò che non poteva comprendere un sentimento così antidiluviano come l’odio nei confronti di un intero popolo -, io presi le difese del grassottello Lissauer in modo appassionato e dissi che lui con il suo canto d’odio parlava a me e a tutti noi dall’anima, e che aveva quindi scritto la migliore poesia sulla guerra. Quattordici giorni dopo, di nuovo nel Café “Greco”, fui smentito da una notizia del “Giornale di Francoforte” riguardante Zuckermanns “Caduto lungo la costa”; l’uomo era caduto nei Carpazi. Allora pensai che dovevamo a lui e non a Lissauer la migliore poesia di guerra.

Silvestro, almeno la vigilia di San Silvestro fu più bella della sera di Natale. Ancora una volta, come nell’estate sul Palatino, lo studio di Roma divenne per me l’esperienza di Roma. Camminammo lungo la Via Appia, che sembra infinita agli occhi, molto lontano dai Colli Albani, dalle linee leggermente discendenti. La campagna color verde pallido si estendeva sia a destra, verso l’orizzonte, sia a sinistra, dove in distanza si scorgevano gli archi degli antichi acquedotti, delimitati dagli squadrati e innevati monti sabini. Questa cornice naturale era simile alla città che circonda il palazzo dell’imperatore, il quale non sembra un museo bensì è rivolto verso il dovere del presente. Tuttavia non sono mai riuscito a capire fino in fondo perché la Via Appia mi sembrasse qualcosa di vivo e non solo una reliquia interessante o sublime di un lontano passato. Questa è una strada cimiteriale cinta di tombe. Le sue massicce torri in laterizio sono monumenti sepolcrali e si alternano con camere sepolcrali, i cui soffitti sono alcuni crollati in parte e altri per intero, e con lapidi sepolcrali verticali e con colonne sepolcrali, mentre gli alberi sparsi tra di essi, pini e cipressi scuri, sono l’ornamento del cimitero. Forse l’impressione che ci sia una vita in quel luogo dipende dal fatto che non si trova in un’oasi di pace chiusa, bensì su una strada, dove talvolta si passeggia liberamente proprio sulla pavimentazione antica originale, e accanto alle tombe. In quel pomeriggio ci sembrava di camminare per davvero nell’antica Roma, e il presente non esisteva.

Una volta raggiunta nuovamente la città, ci imbattemmo nei resti e nei postumi di uno dei tumulti quotidiani. La gente discuteva in piccoli gruppi circa l’interventismo o la neutralità, un carabiniere cercava di mitigare bonariamente un ragazzo all’incirca diciottenne dal volto paonazzo e i capelli arruffati. Un uomo più grande stava a guardare con disapprovazione e diceva a voce alta, molto più a se stesso che a noi: “Tre, quattro ragazzi, cosa rappresentano? Proprio niente!”. Erano veramente solo tre o quattro ragazzi quelli che manifestavano ogni giorno, non rappresentavano veramente “niente”? La domanda non mi lasciò un momento di pace, perché mi ripetevo in continuazione che se l’Italia fosse rimasta in silenzio noi avremmo finalmente tenuto testa agli avversari, ma se ci avesse pugnalato alle spalle, l’esito della guerra sarebbe stato imprevedibile.

Poco prima di partire ci imbattemmo in una manifestazione, e stavolta non si trattava certamente di tre o quattro ragazzi, la quale attirava un pubblico forse solo curioso, ad ogni modo massiccio e in perfetto silenzio. Il nostro tram era rimasto a Santa Maria maggiore, la piazza, le alte scale, i balconi e i tetti erano coperti di uomini, bambini e adolescenti seduti sugli alberi, sui lampioni e sugli sporti. Agli angoli della strada erano attaccati dei grandi manifesti, oggi torna a casa la salma di Bruno Garibaldi “dai gloriosi campi delle Argonne, dove è caduto per la libertà del popolo”. Già da lontano si sentiva la banda che si avvicinava lentamente, suonando sempre la stessa canzone, la Marsigliese. Dietro la banda veniva il carro funebre, la bandiera e la corona funebre sopra la bara mostravano i colori italiani, francesi e belgi. Per tutta la lunga processione sventolavano solo bandiere rosse; queste avevano delle iscrizioni come “Circolo socialista”, “ferrovieri anticlericali”, “organizzazione repubblicana”… Durante l’ultima sera di queste ferie mi trovavo a Napoli da Croce, inevitabilmente insieme a Manacorda. La tensione per me imbarazzante che c’era fra i due si manifestò subito in modo molto deciso. Manacorda difendeva l’“Italia nostra”, mentre Croce, per quanto riguarda i miei chiassosi studenti, parteggiava per un provocante giornale “germanofilo”, rimproverando a Manacorda un sentimento politico infantile. Non si poteva negare, Manacorda aveva detto, che la questione dell’intesa era la questione della libertà, e Croce gli aveva risposto che in fondo la Germania era di gran lunga più democratica della Francia. Io pensai alle scritte che avevo letto sulle bandiere portate nella processione per Garibaldi. Cosa poteva fare il parere di un solo filosofo, quando i rappresentanti ufficiali della libertà e i potenti partiti di sinistra erano di idee opposte? – Ma in un certo senso la neutralità italiana emergeva in quella occasione. Il crepuscolo degli dei annunciato per la sera cominciava in ritardo, perché i suonatori della Marsigliese davanti al carro funebre di Bruno Garibaldi appartenevano all’orchestra dell’opera.

Subito dopo le ferie, il 14 gennaio, mi acquistai la discutibile nomea dell’innocente. “Hai sentito il terremoto?” mi chiese mia moglie, quando tornai dalla lezione della mattina. “Quale terremoto? Non ho sentito niente”. – “Ma il letto ha sussultato, la lampadina dondolava, sulle pareti ci sono delle crepe; io sono andata subito sotto il telaio della porta del balcone, perché in caso di crollo i muri esterni rimangono in piedi”. In quel momento la cameriera ci portò la notizia che molte case lungo la costa avevano delle crepe, e un’ora dopo cominciarono ad essere pubblicati i giornali dell’edizione straordinaria, ognuno con una notizia più brutta di quella precedente. Soprattutto in Abruzzo c’erano stati tremendi danni e la perdita di uomini, interi paesi erano stati annientati, come Avezzano sul tratto Sulmona-Roma che avevamo percorso l’anno precedente, dove di undicimila abitanti solo parecchie centinaia erano rimaste in vita, e anche queste erano state ferite in gran parte. Nel mio diario scrissi, un paio di giorno dopo, invece di un commento di compassione: “Grazie a Dio! La catastrofe spodesta la guerra dalle prime pagine dei giornali e smorza almeno un po’ il chiasso degli Interventisti. Se solo ciò bastasse!”. E subito dopo: “La scossa sismica non è bastata. Tutte le volte che la voluta di fumo sul Vesuvio diventa un po’ più grande e densa penso: se solo eruttasse! Forse potrebbe creare un diversivo!”

La crudeltà della mia annotazione aveva il suo fondamento nella crescente pressione della situazione. Logatto, che non si era più potuto far vedere a lezione, era venuto da noi in abito civile. Disse profondamente depresso che il pensiero più terribile per lui era quello di dover combattere contro la Germania, riteneva che la guerra fosse inevitabile, e tuttavia questa sarebbe stata “la guerra dell’Inghilterra”. Raccontò che Manacorda, durante le vacanze trascorse nell’Italia settentrionale, aveva tenuto alcune conferenze che incitavano a un attacco a sorpresa. Nella mia esacerbazione dimenticai tutti i miei propositi diplomatici e mi avventai contro Manacorda. Lui si offese nuovamente a morte: era stato completamente frainteso, se lo si riteneva un guerrafondaio che andava contro la Germania, perché in realtà aveva solo voluto rafforzare il patriottismo generale e fortificare gli animi italiani. Mi assicurò di non essersi nuovamente risentito con me per la mia impetuosità e ribadì la sua immutabile amicizia per me e per la Germania. Io sono tuttora persuaso del fatto che egli non mentisse volutamente. Ritornammo su questa conversazione quando ci trovammo da Ruta, che fungeva per così dire da arbitro. Lui riteneva che le conferenze di Manacorda fossero state imprudenti e antiquate e si era schierato nuovamente dalla parte della Germania, per poi proseguire: “L’Austria invece – mio padre è ancora rinchiuso in una prigione austriaca, io abomino l’Austria, io l’abomino”, e intanto la sillaba aperta “bo” aveva risuonato, come quando si spara il tappo di una pistola per bambini.

Ma naturalmente questo episodio non era stato il solo a scoraggiarmi. Adesso mi veniva in mente una mezza dozzina di volte al giorno uno dei discorsi abituali spesso irriverenti che mio padre faceva a me e ai miei fratelli e sorelle, certamente un residuo del tedesco del ghetto. Mio padre teneva a rispettare anche l’appuntamento meno importante, la promessa più trascurabile, e quando qualcuno gli chiedeva una cosa per l’ora seguente, lui rispondeva sempre con la stessa formula: “se vivo e sono in buona salute”. Ora tutti dicono “se non scoppia la guerra”. – “Signorina, la prossima settimana le andrebbe di tenere una conferenza sulla vita di Molières?” – “Sì, professore, se la guerra non scoppia”. – “Fajella, le andrebbe domani di prendere un tè con me?” – “Con piacere, professore, se la guerra non scoppia”. E così via all’infinito. L’azione militare sui Dardanelli fu un’altra occasione per l’impiego della formula. Tutto ciò produceva un atrofizzarsi e un abituarsi che avevano un effetto logorante come quando si ha una preoccupazione tormentosa.

Il compleanno dell’imperatore, il 27 gennaio, doveva essere festeggiato con un banchetto della colonia, a cui noi del consolato fummo invitati. Tre giorni prima giunse una lettera circolare che diceva fosse “desiderio di sua maestà che l’imminente sommo compleanno venisse celebrato sia a casa sia all’estero con i festeggiamenti della chiesa e delle scuole. Ci aprimmo un varco tra la furiosa massa di gente presente per la funzione religiosa della colonia tedesca in una piccola chiesa gotica a Piazza dei Martiri. L’altare mostrava l’aquila imperiale e i colori nero bianco e rosso, la nostra bandiera era appesa anche sul coro retrostante. C’erano circa un centinaio di persone, principalmente donne, un paio di signori anziani e pochissimi ragazzi. Il pastore parlò meno dell’imperatore che del popolo, aveva scelto un bel testo: “Siate uniti nello spirito”. Ma nel momento dell’unzione e nella commozione che si avvicenda all’altra riuscì a pronunciare solo le frasi consuete del pulpito e dei giornali, e tutto ciò che diceva suonava opprimente e per niente esaltante. Le parole “gravità terribile” e “pesante come un macigno” venivano ripetute in continuazione, non riusciva a smettere. In tutto il suo discorso l’unico elemento nuovo che sentii fu l’aggiunta, pregando per le nostre coraggiose truppe, dell’espressione “e per aria” al consueto “per terra e per mare”. Il canto del coro “il solido castello” non suonava tanto solido. Per questo veniva saltava la strofa “con il nostro potere è troppo poco”. Dopo il compleanno venne organizzato un insolito banchetto che consisteva in una serata patriottica degli appartenenti al circolo tedesco e svizzero, in un villino carino nel cortile di un immenso palazzo presso la caserma Pizzifalcone. Si recitavano canzoni e poesie patriottiche, un signore anziano leggeva lettere commoventi e patetiche della posta militare, che decifrava con esitazione, e che si concludevano con l’inno comune “ti saluto nell’alloro della vittoria” e “la Germania al di sopra di tutto”. L’atmosfera restò smorta, anche dopo non successe niente di interessante fra i presenti. Afferrai una conversazione nella fila di sedie dietro la mia. L’uomo diceva: “Non credo che l’Italia vada contro di noi, gli forniamo il carbone”. La donna rispondeva: “Sì, ma lei ha letto il decreto della camera e la protesta dei fornai? Riduzione delle provviste di farina e proibizione di cuocere il pane durante la notte. Se le cose andassero così da noi…”.

Nonostante la politica rappresentasse uno degli interessi principali degli italiani, stavolta gli studenti dimenticarono persino il consueto tumulto per ottenere delle vacanze di carnevale più lunghe. Non so dove avremmo trascorso queste vacanze se la signora Pagano non fosse venuta a fare visita alla sua amica e collega di lavoro Pastner, ma ad ogni modo sicuramente non a Capri. Perché avevamo un vecchio pregiudizio su Capri, pregiudizio fondato sulle novelle di Heyse e il suo viaggio di nozze in Italia (“Un matrimonio a Capri”, romanzo di Paul von Heyse – ndt), e per quanto in generale fossimo guariti dai preconcetti di un tempo, per quanto riguarda questo punto il preconcetto resisteva. Quando nel 1904 mi figurai nei versi della Boheme un’immagine futura del successo e dell’opulenza, allora scrissi: “Ti costruisco Villa Eva nella torre di Babele, /il nostro quartiere invernale è a Capri”. Capri perciò era il picco della italianità mondana lungo il Lido. Perciò di conseguenza ci era sembrata sempre discutibile. Nonostante fosse ritenuta il rifugio più elegante, come si leggeva nel paragrafo 175, era rimasta per me non proprio amabile. A Napoli si incontrava ovunque, in formato grande e piccolo, in olio o acquarello, o fotografata sulle cartoline, l’immagine viscida di un pescatore di Capri con la barba folta ben tenuta, gli occhi ridenti, il tipico berretto rosso brillante Phryger (tipico berretto proveniente da una antica popolazione indoeuropea residente in Turchia – ndt), l’immagine sembrava esprimere una bontà d’animo e una contentezza divina, il paesaggio intorno e lui stesso erano raggianti. La viscida dolcezza di questo quadro era per me un simbolo ripugnante dell’Isola. Ma ora la signora Pagano, in quell’inizio di gennaio, era arrivata nel Partenope, ed esprimendo il suo affetto per noi, ci dava il suo cuore e ci invitava insistentemente a trascorrere le vacanze da lei. “Mi dica cosa le ha dato la signora Pastner, le assicuro che riceverà la mia stanza migliore e l’intera casa se vuole, perché ora è vuota”.

La signora Pagano era nata a Monaco, suo marito deceduto da un po’ di tempo le aveva lasciato l’Hotel Pagano a Capri. Era un posto famoso da tempo, citato come il migliore nei baedeker. Scheffel aveva scritto lì il suo “Trombettista” all’inizio del suo cinquantesimo anno, lì avevano vissuto molti pittori e autori tedeschi nei decenni seguenti. Ma adesso andava male per l’apparentemente ricca ereditiera, che era venuta a Napoli per mandare l’unico figlio a una scuola molto costosa. Un processo con i fratelli di suo marito per l’eredità, perso in prima istanza e in seconda istanza definitivamente a suo sfavore, l’aveva danneggiata duramente, e la guerra aveva fatto il resto. Il 2 agosto erano partiti tutti i suoi ospiti. Lei accusò disperatamente la falsità dei suoi parenti italiani, la corruzione della giustizia italiana, soprattutto la slealtà e la malvagità degli italiani. “Quanto profitto hanno ricavato da noi con la casa. Solo per il piano in “quisisana” si pagano per ogni stagione turistica ottomila lire. E allora la bandiera inglese sventoli sulla “quisisana!” L’appassionata esaltazione della sua isola si avvicendava con la altrettanto appassionata condanna. Lei raccontò di un inglese che era venuto vent’anni prima come turista “solo con uno spazzolino da denti”, per tornare a Napoli il giorno dopo. Il giorno dopo però si era fatto mandare dall’Inghilterra le sue valigie e l’intera famiglia. Non ha più lasciato la paradisiaca Capri, voleva restare lì fino alla fine dei suoi giorni ed essere sepolto lì.

Decidemmo di dimenticare sia i pregiudizi sia i racconti della signora Pagano, che erano evidentemente esagerati dalle sue condizioni, e quindi di fare una gita di due giorni a Capri. Dopo ci successe quasi ciò che era successo a quel leggendario inglese, vale a dire ci restammo entrambe le settimane di vacanza fino all’ultimo minuto, nonostante l’immagine del pescatore fosse visibile ovunque, principalmente circondata da fotografie di giovani più belli e più svestiti. Due cose ci fecero restare.

Innanzitutto la singolare casa Pagano stessa. Apparteneva veramente e in senso letterale tutta a noi. Avevamo ricevuto un vero appartamento, salone e grandi camere da letto, avevamo a nostra disposizione l’intero spazio. Ovunque c’era eleganza e degrado, ovunque era immortalato il gusto artistico tedesco dell’epoca dell’Heyse. Tutte le pareti erano dipinte. Il gusto per lo spiritoso si manifestava negli gnomi, la genuinità del cuore e la fanciullezza negli angeli e nei babbi natali, l’erotismo nella nudità femminile presso una fonte nel bosco o in prati fioriti all’alba o al tramonto. Non mancavano neanche dei versi attinenti ed esplicativi. Nella nostra stanza Allers aveva disegnato alla parete con i colori a matita una grossa testa di Bismarck che fumava la pipa; anche i pavimenti sontuosi sembravano semplici e accoglienti. Ma tra tutta questa arte c’erano appese delle ragnatele: mancava il personale. I campanelli e purtroppo anche gli scarichi erano in disordine, la luce elettrica mancava in molti punti, dove era sostituita dal petrolio: mancava il denaro per le riparazioni. Nel grande giardino dell’hotel le arance sugli alberi e quelle cadute erano secche: prima avevano costituito il dessert per gli ospiti, ora non c’era nessuno che le raccogliesse e nessun ospite che le mangiasse. C’era solo una cameriera, che cucinava per noi e per la signora Pagano e sbrigava tutto il lavoro ordinario. Ma il pranzo ci veniva servito nella sala da pranzo, e l’ostessa non mangiava con noi: eravamo in un hotel famoso e non in una pensione qualunque. Solo questo albergo avrebbe potuto farci rimanere; le sue stanze erano un museo vivente, e nel suo silenzio e isolamento totale si poteva lavorare splendidamente; qui sono riuscito a scrivere i pezzi più difficili del mio libro.

Il Café “Hiddigeigei” era molto simile all’hotel per quanto riguarda l’aspetto sinistro delle decorazioni alle pareti e il passato, ma non era così decadente e abbandonato, perché un paio di signore inglesi lo frequentavano sempre, inoltre si trovava vicino a un negozio di generi coloniali.

Ma mille volte più di tutte le attrattive del Pagano e di “Hiddigeigei” ciò che ci trattenne a Capri fu Capri stessa. Era così meravigliosa, non così disgustosamente dolce come le immagini del pescatore viscido e dei ragazzi deliziosi, non era neanche solo dolce e graziosa, con i prati ricoperti dai fiori di campo, il rosa dei mandorli sempre più fiorenti, il bianco dei primi fiori d’arancio. Così come i rami nodosi ancora spogli degli alberi di fico si avviticchiavano verso l’interno, così le centinaia di strade e sentieri si snodavano verso le montagne e verso la costa in ogni dove, dai luoghi ameni verso quelli più imponenti, la malinconia e la minaccia proveniva dal nord. Ci sembrava spesso di esserci spostati verso il muro della fonte, un possente muro della fonte, e in un momento successivo l’intero sud era intorno a noi. La bellezza dell’isola si manifestava in modi sempre diversi e sempre nuovi nella magnificenza della vista sul golfo. E ancora, per l’ultima volta in questo capitolo, dopo di che non lo menzionerò più per molto tempo, devo ricordare il mio giuramento.

Durante tutte le passeggiate quotidiane, anche nei luoghi più famosi, eravamo quasi sempre soli. La guerra aveva fatto piazza pulita dei forestieri. Solo che essa ci accompagnava inesorabilmente. Nel “Hiddigeigei” c’erano dei giornali un po’ diversi da quelli che c’erano nel café “Greco” e nel “Gambrinus”. Sorgeva un nuovo motto: “L’ora della decisione”. L’ora della decisione era vicina, ed era molto probabile che sarebbe giunta per ordine della camera il 18 febbraio. In questo giovedì noi dovevamo tornare a Napoli. Il primo ministro parlava in maniera contorta e incerta, il Parlamento e la stampa si accontentavano del suo comportamento diplomatico (io annotai: “da avvoltoio appostato”); ne sapevo quanto prima e ogni giorno la situazione era sempre più incerta. Tutto procedeva regolarmente, le lezioni all’università e al Suor Orsola si svolgevano tranquillamente, con Manacorda avevo degli scontri quotidiani, che però non offuscavano mai il nostro rapporto – “Voi siete buoni nemici, buoni nemici”, disse Fajella, “no, noi siamo amici”, correggeva Manacorda -, presso Croce trovavo ancora una buona accoglienza, e non diversamente da ciò che accadeva da Manacorda, anche da lui si finiva per parlare sempre degli stessi temi, non si parlava d’altro, addirittura venni a sapere che i Croce avevano avuto una figlia solo grazie a Vossler. Lavoravo accanitamente al mio “Montesquieu”; da due anni questa opera mi aveva accompagnato lungo tutti gli avvenimenti di paese in paese – ancora tre o quattro settimane di pace e lo avrei terminato. Ma ogni giorno i giornali parlavano dell’ “ora della decisione”, e ogni sera togliendo un giorno al calendario mi chiedevo se il giorno seguente saremmo stati internati.

Il 9 marzo sembrò giunta la crisi. Volevamo andare a letto presto, quando sentimmo urlare davanti le nostre finestre: “O matiii!”. Un’edizione straordinaria del “Mattino”, giornale germanofilo e meno alla ricerca di scandali. Questo diceva che la guerra con l’Austria era alle porte; poiché la cessione all’Italia del suo possedimento italiano era stata rifiutata, era stata abbandonata dalla Germania. Le cose stavano per mettersi male; se l’Italia avesse attaccato l’Austria, era in guerra anche con la Germania, e noi eravamo in pericolo. Ci precipitammo in città: lì dominavano i soliti rumorosi e allegri viavai serali. Davanti al consolato tedesco la situazione era tranquilla, davanti a quello austriaco non si vedeva un carabiniere, non si sentiva nessun grido di “Abbasso”. Puntualmente alle undici si avvicinò dalla stazione in crescendo il regolare piagnisteo: “La Tribuuu!” e “Na d’Itaaa!”. In questo periodo i giornali pomeridiani della “Tribuna” e del “Giornale d’Italia” venivano sempre annunciati. Entrambi i giornali romani non contenevano nessuna parola allarmante. Ci dicevamo per consolarci che quando si diceva erroneamente che una persona era morta questa era solita vivere a lungo, e così sarebbe stato anche con la pace in Italia.

Poco tempo dopo scrissi la conclusione del mio “Montesquieu”. Mi ero dannato l’anima così a lungo con una analisi singola tribolante ed estenuante, ora potevo di nuovo aprirmi ed esprimere a dispetto di ogni disciplina filologica ciò che rappresentava la mia persona umana. Il manoscritto venne stampato immediatamente proprio nell’inverno che mi ero prefissato, e nel mio essere di buon umore guardavo le cose con più speranza rispetto a mesi prima.

Poiché la pasqua precedente avevo preso come presagio le code delle lucertole, mi misi a cercare un nuovo presagio di pasqua. Avendo raggiunto un anno di impiego statale avevo ricevuto il tanto agognato libretto ferroviario; mi chiesi se mi sarebbe rimasto il tempo per sfruttare le sue grosse agevolazioni. Avevamo pianificato da tempo un lungo viaggio in Sicilia – se ci fosse stato veramente concesso, allora anche tutto il resto sarebbe volto al meglio: avrei terminato il mio secondo anno scolare, dopodiché avremmo viaggiato per l’Italia in lungo e in largo, e fino a che non fossimo tornati a casa, la Germania avrebbe conquistato la pace da vincitore, quindi avrei potuto cominciare il mio insegnamento a Monaco e forse persino la cattedra universitaria a Posen. Avrei iniziato con una gran bella lezione su Voltaire e Rousseau, e questa doveva essere pronta già da adesso.

Andai subito a prendermi una catasta di libri dalla biblioteca universitaria. La signorina Diaz me la diede scuotendo il capo. “Non riesco a capire”, disse, “come lei si possa occupare di letteratura francese, mentre la sua patria è in guerra con la Francia. Bédier a Parigi ha pubblicato di recente un opuscolo sugli orrori della guerra: forse esagera, ma lui scrive come ciò lo commuova. Voi siete dunque senza cuore?” Risposi: “No – ma l’obiettività è la più bella caratteristica tedesca, e non ritengo possibile che il tanto scettico Bédier possa allontanarsi dal suo modo di vedere le cose”.

La sera di domenica, il 27, facemmo le valigie, misi in valigia un volume delle tragedie di Voltaire e annotai: “Questa sera alle sette e mezza partiamo, se la guerra non scoppia”. Partimmo per davvero. Il traghetto “Città di Siracusa” era certamente pieno di militari, e sul ponte superiore c’erano numerosi cannoni leggeri e un pezzo d’artiglieria pesante, inoltre il viaggio fu lento e non arrivammo in orario, perché si serbava lo scarso carbone in caso di guerra.

I primi giorni in Sicilia mi diedero una lieve delusione. Mi ero aspettato qualcosa di ancora più esotico, e invece trovavo che a Palermo tutto fosse più tranquillo, più preciso, più tipicamente europeo di Napoli – poco ci mancò che l’avessi definita una città sobria. Naturalmente presto mi resi conto dell’insensatezza di questo giudizio, ma la prima impressione generale rimase, e registrai sempre anche i paragoni dei dettagli più belli: “molto bello, ma da noi a Napoli…”. Per il momento su questo “da noi a Napoli” trionfavano solo le capre siciliane che si differenziavano molto da quelle napoletane. Quando in un sentiero fra pareti scoscese fuori la città incontrammo il primo gregge, animali enormi con il vello liscio e bianco candido, marroncino solo sulla testa, e con corna giganti come grandi nastri contorti, li guardammo con così tanta ammirazione che il pastore ci gridò lusingato: “Sono belle, vero?

Anche a Girgenti le capre mi fecero la stessa impressione. Certamente non ero insensibile ai templi, ma risentivo della mia inesperienza archeologica, che avevo ammesso già a Paestum con la massima devozione. Tuttavia c’era un motivo preciso per questa mancanza di interessamento. Il viaggio rappresentava un oracolo, e qui a Girgenti accadde qualcosa che poteva essere interpretato tanto favorevolmente quanto a sfavore.

Sul treno infatti il controllore, che naturalmente ci aveva riconosciuto come forestieri e ci aveva sentito parlare tedesco l’un l’altro, aveva indugiato sul mio libretto. “Lei è tedesco?” chiese. “Sì, prussiano”, risposi, perché tedesco significava in primo luogo l’odiato austriaco. “Come è possibile che lei abbia il libretto di un impiegato italiano?” – “Sono professore all’università di Napoli”. Mi restituì il libretto in silenzio con lo sguardo più diffidente possibile. Vi ci discutemmo sopra con il tizio che ci sedeva di fronte, un sottotenente. Egli si presentò come amico della Germania e della pace ancor più di quanto lo fosse Logatto. Mi rimase in mente soprattutto una delle sue frasi che ripeteva spesso. “Come potremmo combattere contro la Germania, dal momento che siamo sempre stati all’ombra della Germania!” Accogliemmo il suo invito di recarci con lui all’Hotel Grande Bretagne. Era un puro albergo italiano. Giovani ufficiali riempivano la sala da pranzo, uno solo in borghese sedeva con i suoi a un grande tavolo rotondo. Tramite il nostro accompagnatore venimmo trascinati nella compagnia. Naturalmente il discorso verteva sulla guerra. Gli ufficiali si dichiaravano tutti pacifisti e benevolmente neutrali nei confronti della Germania, cosa che poteva anche essere una semplice cortesia nei nostri confronti. Solo il civile, che ritenevo fosse un attore, disse alcune parole patetiche sull’eroismo e il martirio della Francia. In quel momento sopraggiunsero due uomini, uno più anziano e uno di molto più giovane, che si dirigevano verso di me. Il più anziano mi spiegò cortesemente che dovevo perdonare la gravità della situazione, ma erano stati mandati dal capo della pubblica sicurezza, il quale voleva esaminare di persona i miei documenti. Io gli diedi il mio passaporto tedesco e il libretto, ridendo, ma molto preoccupato. Il civile disse: “Non le accadrà niente di male, tanto meno alla signora; anche durante la guerra noi siamo pieni di riguardi e di umanità”. Ciò poteva sembrare una rassicurazione, ma il fatalmente accentuato “noi” avrebbe voluto dire “noi non siano unni come voi”. Il nostro sottotenente scrollò le spalle: “nient’altro che subalterne arie di importanza”. Poi tutti si sforzarono di ricominciare a chiacchierare con disinvoltura. L’attore recitò una lunga poesia satirica sulla debolezza dell’Austria, in modo pacato, e Guglielmone restò fuori dal discorso. Dopo un quarto d’ora mi avevano restituito i documenti, erano in ordine. Tutto qua, ma mi diede molto da pensare. Avrei dovuto fare affidamento sulla diffidenza dell’autorità o sull’amore per la pace degli ufficiali? Il giorno seguente fummo presi dal pensiero che ciò portasse all’interpretazione ottimistica del presagio. Ovunque in strada vedevamo numerose truppe che appartenevano ai vari ufficiali. L’Italia non raccoglieva le sue truppe ai confini settentrionali. Essi partivano dalla Sicilia per andare a Malta e in Tunisia.

Questa atmosfera ottimista si rafforzò a Siracusa. Un’intera flotta era ormeggiata in rada, e più in là manovravano un incrociatore e numerosi Torpedo (navi militari – ndt). Nel teatro greco saliva un’orda di allegri soldati di marina, dal mare veniva il rumore dei colpi. “La <Margherita> ha capito”, rise uno, e un altro gridò: “Domani partiamo direttamente per Tunisi!”. Se solo il “Kattenturm” da Brema, il “Barcellona” da Amburgo e un altro paio di piccole navi tedesche si fossero ormeggiate non solo sulla banchina proprio davanti il nostro hotel e a lungo andare avessero piantato le tende. Le navi erano abitate e tenute con cura, venivano sciacquate, dopo il lavaggio c’era l’asciugatura, il fumo della cucina aleggiava sottilmente nell’aria. Avevano raggiunto il porto neutrale durante lo scoppio della guerra ed erano ormeggiati lì da allora. “L’Inghilterra comanda ancora i mari”, annotai e sottolineai forte la parola “ancora”.

A Siracusa ricevetti per la prima volta l’impressione del nuovo. Avvertii una distanza ancora più lunga dall’Europa di quella che avevo sentito a Napoli. Sembrava di stare in Africa. Ciò che mi dava questa sensazione era forse meno il tremolante gran caldo sugli altopiani rocciosi durante il viaggio verso Forte Eurialo, con i rivoli d’acqua fra le rocce, le oasi e le latomie, piuttosto che il pronunciato viso negroide di molte persone. Il giovane vetturino, che ci intratteneva durante il viaggio, parlando a turno del paesaggio e degli edifici o della sua storia e quella della sua famiglia, nominava più volte suo nipote. All’inizio credevamo di aver sentito male, poi gli chiedemmo quanti anni avesse. “Ventinove” – “E sei già nonno?” – Si era sposato a quasi quindici anni, sua moglie ne aveva tredici, e la sua prima figlia aveva fatto come la madre. In Sicilia c’erano casi eccezionali di permessi di matrimonio precoci.

Giunsi all’ultima e più importante tappa che mi ero imposto, Taormina. Dimenticai tutta la delusione che avevo provato inizialmente, dimenticai lo sciocco “da noi a Napoli”, per poco non dimenticai la guerra – le poche persone con le quali scambiammo qualche parola: l’oste, un conservatore di museo, un uomo di chiesa, una guida turistica disoccupata, parteggiavano tutti appassionatamente per la pace – non c’era un mondo cruento, nessuna stretta al cuore, c’era solo la beatitudine di Taormina. Qui non ci sentivamo turisti, per una lunga settimana ci sentivamo dei residenti. Ciò è da prendere alla lettera, perché per delle ore sedevamo ogni giorno sui nostri posti preferiti nel grande teatro, a volte sui gradini più alti, a volte su quelli più bassi, vicinissimi alla solitaria agave. Non succedeva mai che uno straniero ci disturbasse. Ci sentivamo così tanto come a casa che io leggevo ad alta voce dei brani dal mio tomo di Voltaire, l’ “Odipo” e il “Bruto”. (Immagino che l’eventuale lettore possa storcere il naso: che cattivo gusto, leggere ad alta voce in un vero teatro romano il più scarso degli pseudoclassici). Di tanto in tanto, a distanze irregolari, mi interrompeva un breve rumore sordo e possente, come un colpo di cannone o un breve rombo di tuono o il verso di un enorme animale, una specie di queste cose appena dette, ma un rumore più indescrivibile, più singolare e indimenticabile. “L’Etna lavora”, ci aveva informato il conservatore del museo, “e si rilassa emettendo questo boato”. Allora misi il libro da parte e vidi ciò che avevo sentito durante la lettura, il vulcano armonioso e imponente, completamente innevato e la catena montuosa dell’entroterra siciliano e la costa e il mare italiano e la primavera italiana.

Prendemmo il traghetto per tornare a Napoli da Messina. Se oggi ripenso a Messina, tutto è illuminato dalla magnificenza del paesaggio e del suo fiorire rigoglioso nel caldo afoso. Avrei potuto citare il Petrarca: “La morte era bella sul suo volto tranquillo”. Ma all’epoca un doppio pensiero mi scuoteva. Devo riportare testualmente ciò che dopo il nostro arrivo a Napoli annotai nel diario riguardo Messina: “Io non so cosa sia più deprimente, la vecchia città distrutta o la nuova città provvisoria. Sono passati sette anni dalla scossa sismica, tutto è stato rimesso in ordine, ma in modo ancora più terrificante di quanto non lo abbia fatto la distruzione. Le strade ricoperte d’erba con pecore al pascolo, da entrambi i lati solo fondamenta – un’antica città dissotterrata. Altri tratti di strada sembrano totalmente integri da lontano, a prima vista; ma poi da vicino si vede che stanno in piedi solo i muri esterni, manca ciò che c’era dietro e mancano i tetti. Lungo un’altra fila di case le facciate sono ridotte a un cumulo di macerie, e i loro spazi interni sono aperti come a teatro. La pittura della parete interna del primo piano di un palazzo sembra mutilata di guerra. In alcuni palazzi le fondamenta resistono; sulle colonne e i pilastri interrotti tutt’un tratto si trova un misero tetto. Tutt’intorno c’è serenità, si demoliscono le case, le macerie vengono portate via, tutto è avvolto dalla polvere. In parecchi punti ci sono dei lavori interrotti, solo in alcuni sono presenti già degli scavi di fondazione e le basi delle nuove costruzioni. Quanto infinitamente minimi sono questi segni di ricostruzione in confronto con la distruzione, e tutto questo dopo sette anni! Ma ancor più sconfortante trovo il nuovo quartiere residenziale. Solitamente, immediatamente dopo la catastrofe si dovrebbero fornire degli alloggi per i sopravvissuti e creare delle squadre di salvataggio. Invece qui ci si accontenta di questi mezzi di fortuna, se ne usufruisce per un tempo indeterminato, forse per sempre rassegnati. Una città di baracche per centomila abitanti. Baracche di legno, baracche di lamiera ondulata, ora come un enorme lazzaretto per le epidemie, ora come le costruzioni di un campo di addestramento, ora come un baraccone da fiera. Nel legno e nella lamiera l’edificio postale con gli sportelli, consueto per l’Italia, è costituito da un cortile aperto a forma di quadrilatero. Chiese in legno e lamiera, scuole in legno e lamiera. Sulle strade strette invece del marciapiede ci sono delle assi. Forse il tutto sarebbe potuto sembrare, nei primi mesi della ricostruzione, carino e lieto, come una mostra di breve durata. Ma ora dopo sette anni! E anche qui tutto è avvolto nella polvere che si solleva dalla vecchia Messina. Desolante. Ma no: “desolante” è per me come dire una bugia. Proprio l’opposto è vero. Queste ultime sei ore in Sicilia volgono il mio oracolo di pasqua a favore. Ho sempre ripensato all’orgoglio con cui l’anno precedente Manacorda parlava della ricostruzione di Messina. E ora questa misera situazione provvisoria ma eterna! Un popolo con una ferita così male rimarginata, così non curata, non può e non potrà condurre nessuna guerra di conquista”. –

Così anche il viaggio in Sicilia era pienamente riuscito, quasi oltre misura, perché immaginando l’Etna ora il Vesuvio mi sembrava una dolce collina, come un innocente giocattolo per bambini, e dopo il tepore e la rigogliosità della Sicilia ora la primavera napoletana ci sembrava misera e fresca. Relatività delle sensazioni: la madre scrive da Merano (località dell’Alto Adige – ndt), dicendo che si sta riprendendo felicemente dall’inverno di Berlino nel “soleggiato sud”.

Ma mi resta poco tempo per queste considerazioni. Ogni giorno mi assicuro che l’Italia non sia entrata in guerra, perché ora nessuno intorno a me crede ancora alla pace. La prima novità di cui venimmo a conoscenza fu la partenza di numerose famiglie tedesche. Mi diressi al consolato. Wewer era a Roma, Töpke sembrava preoccupato. La partenza era stata consigliata dal consolato. “Di recente le cose vanno molto male, e durante la mobilitazione sono stati bloccati i binari. Al momento Bülow deve dare una speranza. Lei stesso naturalmente deve restare al suo posto. Se questa sia la cosa migliore per sua moglie, lo lascio a sua discrezione”.

Non diedi molta importanza alla saggezza del consolato. (“In Dicembre sbarchiamo di certo in Inghilterra!”) Ma il comportamento degli italiani che mi erano intorno mi diede da pensare. Ero tenuto nell’ovatta, venivo trattato come un paziente di cui si vuole avere riguardo, rasserenare, tenere all’oscuro delle proprie condizioni. Manacorda era ancora più amichevole e premuroso come al solito, evitava ogni discorso politico, mi sembrava triste e taciturno quando dicevo qualcosa in proposito, cosa che prima avrebbe certamente suscitato obiezioni. La principessa veniva stranamente spesso nella mia classe, faceva cenni di assenso, mi lodava davanti alle studentesse (cosa che prima non aveva mai fatto), mi stringeva le mani e mi confermava ogni giorno quanto le dispiacesse che noi avessimo dovuto affrontare un periodo così pieno di preoccupazioni. Nel corso superiore all’università da Natale c’era un francescano che si distingueva per l’esposizione in un tedesco molto corretto e per i suoi accenni mirati alla politica, i quali erano esplicitamente concordi con il mio modo di pensare. Ora sfruttava ogni possibilità per indirizzare il discorso sulla guerra, e prese le parti della Germania con una tale violenza che io dovetti ripetutamente smorzare il suo entusiasmo. Gli altri otto astanti lasciarono parlare il monaco, senza fare obiezioni. Fajella era più solerte che mai. Ricevemmo una lettera da Logatto. Raccontava che il suo reggimento usciva per le esercitazioni. Sperava di tornare in tempo per potermi salutare personalmente prima che io fossi tornato in Germania. Ma in ogni caso voleva esprimere il suo affettuoso attaccamento a me e alla mia patria, che, qualunque cosa fosse accaduta, sarebbe rimasto invariato. Scriveva ciò intenzionalmente in italiano per parlare proprio da italiano. Era una solenne e toccante lettera di commiato; Logatto non credeva certamente alla volontà di pace del suo reggimento. Anche Croce mi sembrò un po’ più calmo nei toni e più preoccupato del solito per la pace. Nella mia ultima visita inveiva contro Savy-Lopez, gli uomini mondani e i romanisti. L’uomo (Logatto – ndt) che finora si poteva considerare come valido scienziato e senz’altro serio, scriveva in questo giorno di amare la Germania, e perciò riteneva che la sua sconfitta fosse necessaria. La Germania deve diventare molto piccola, per ritrovare la sua antica grandezza. Croce riteneva che ciò fosse una sciocchezza, a me stesso il commento sembrava sleale, scellerato. Come avrei potuto intuire all’epoca che ventiquattro anni dopo, senza pensare a Savy-Lopez, avrei spesso ripetuto le sue parole alla lettera.

Questa situazione di essere circondato di cure stando su una polveriera durò quattordici giorni, sembrava dover diventare una cosa abituale come il “se la guerra non scoppia”. Dopo la lezione del mattino all’università, tornando a casa, trovai una lettera ciclostilata del consolato: tutti i tedeschi dovevano tornare in patria. La mia vacanza era terminata; la domanda di prolungamento (“una pura formalità”, si disse in ottobre) restava ancora senza risposta nell’ufficio della difesa di Monaco. Corsi al consolato. Nell’anticamera incontrai molte persone della mia età, impiegati nel settore del commercio e camerieri, come compresi dai loro discorsi. Erano oppressi e amareggiati, non ci si accorgeva neanche dell’entusiasmo per la guerra. Uno disse: “Spero di poter premere sul fronte francese”. Un altro: “Di recente ho dovuto pagare dieci lire per le analisi del medico del consolato. Quando mi lamentavo il segretario rispondeva: . Dio solo sa quanto avesse ragione”. Fui chiamato per entrare dal console Wewer. Era molto agitato. La sede della legazione a Roma aveva perso ogni speranza, e si telefonava a lui dicendo che qui al porto era stato sequestrato un grosso carico per la Germania e l’Austria. Io chiesi come mi sarei dovuto comportare. Sarei rimasto volentieri fino all’ultimo momento al mio posto di docente, ma non avrei saputo come poter proseguire qui il mio soggiorno. Wewer rispose: paghi le venti lire prescritte, e io indirizzo una risposta via telegrafo riguardante il suo caso al Ministero degli Affari Esteri”. Subito dopo aggiunse: “Ma sarebbe denaro sprecato. Già domani lei si potrebbe ritrovare nel campo di concentramento. La cosa migliore da fare: prenda il treno questa sera stessa!”

Queste parole mi trasmisero la sua agitazione. Mi precipitai verso casa, informai mia moglie, che si mise subito a fare i bagagli, e corsi in strada con la stessa fretta. (Non ci saremmo dovuti precipitare in questo modo; perdemmo il treno delle otto e riuscimmo ad andare via solo a mezzanotte, e il vero e proprio scoppio della guerra avvenne solo un mese dopo). Durante il viaggio mi veniva sempre in mente: non siamo ancora stati a Pompei. E poi come consolazione: almeno non avrò bisogno di mettere alla prova le mie conoscenze. Come sarei potuto essere in grado e come avrei potuto rifiutarmi di farlo, senza offendere la buona principessa? All’università Jungano si interessò di me per rispetto della vecchia amicizia, promise di portare le mie scuse e le mie raccomandazioni al rettore e al decano, si interessò anche del fatto che la mia liquidazione fosse versata sul mio conto del Banco d’Italia. Nel Suor Orsola incontrai la principessa e Manacorda. La principessa mi rivolse parole di commozione e benedizioni per il viaggio. Manacorda era silenzioso e disse solo che verso sera voleva andare alla pensione per darci l’addio. Disse ciò con le lacrime agli occhi, mi abbracciò, mi baciò sulle guance e mi mise in un tale imbarazzo, aspettandosi lo stesso da me. La separazione più appassionata fu quella dalla signora Pastner, che imprecava per il suo negozio distrutto e la malvagità degli italiani. Il dolce avvocato e Alì si comportarono in modo più filosofico. –

Di tutte le persone del mio circolo a Napoli non ho più rivisto nessuno. Con Croce, il quale ce l’ebbe con me per un po’ di tempo, poiché nella fretta della partenza avevo dimenticato di andarlo a trovare ancora una volta o scrivergli una riga, intrattenei in seguito una corrispondenza professionale. Tutti gli altri scomparirono completamente per me. Manacorda non mi ha mai perdonato lo studio nei “diari del sud della Germania” che in Italia deve aver suscitato cattivo scalpore, a mia volta a me non va tanto a genio che egli in seguito si fosse unito al movimento fascista. Ma lo ripeto ancora una ultima volta: non l’ho mai ritenuto un falso. Né tanto meno sono riuscito a condividere il pensiero della perfida falsità degli italiani (“dell’italiano” si dice nella lingua del Terzo Reich”), neanche quando mi infastidivo spesso per la loro brama di grandezza e il loro essere avvoltoio. Per quanto riguarda Fornelli, un uomo così perbene, forse non si è fatto più sentire a causa della sua ingenua brama dell’Io: aveva perso ogni rapporto con me già in situazioni precedenti. Per il silenzio di Logatto posso ipotizzare solo una spiegazione: suppongo che non sia più tornato dalla guerra che odiava. –

La mattina seguente bevemmo il nostro caffè nella stazione a Roma e proseguimmo così in fretta per quanto ci permettesse la mancanza di treni veloci. Ora il viavai della guerra, che durante il viaggio di andata in autunno non avevamo visto, era ovunque: treni militari stavano alle stazioni, le truppe si lavavano alle fontane, le guardie facevano il servizio di pattuglia, c’erano frequenti controlli ai treni. Grazie al mio libretto venivo trattato da tutti molto cortesemente, tutti mi chiamavano “signor professore” e non dovevo neanche pagare il pedaggio. Le nostre valigie erano state trasportate fino al confine. Quando espressi il volere di portarle con me ed esibii il mio passaporto tedesco, l’impiegato chiese: “Lei è chiamato alle armi?” Dissi di sì. A quel punto le mie valigie furono libere. Più tardi, quando rividi le valigie sul carro, sentii un lieve brivido; c’erano appiccicati sopra dei biglietti rossi con la sigla nera “merce militare”.

Fonte: Victor Klemperer, Curriculum Vitae, Neapel im Krieg

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