Pubblichiamo l'intervento al convegno Condividi la Conoscenza tenutosi a Milano il 22 giugno 2007, presso la Libera Università di Lingue e di Comunicazione, IULM
Sono un artista… Anzi, per stare sul trabattello della post-modernità dovrei forse dire: “Sono un non-anti-artista” , ma le cose si farebbero assai più complicate e non è questo il luogo per inseguire tali affabulazioni.
Heidegger scrisse che “[…] l’arte è una cosa cui è successo qualcosa”… Ecco, sono uno che fa succedere qualcosa alle cose. D’altronde anche quando chiesero a Marcel Duchamp (probabilmente il vero papà dell’arte odierna) cosa facesse, trovando difficoltà, come me, a rispondere, disse qualcosa tipo: “Non saprei dire cosa faccio. Suppongo si possa dire che passo il tempo respirando. Sono un respiratore”.
Ecco, forse così è meglio: “Sono un respiratore!”…
Movimento elementare che rimanda all’essenzialità della vita, ma non solo: anche ritmo, a volte regolare a volte sincopato, ma sempre dicotomico: inspirare e espirare: due poli di una stessa verità che ha bisogno comunque di accogliere il suo contrario per esistere. E chi, più di un artista, pardon… di un respiratore, si aggira nei territorio del poetico e del simbolico “in cui il sì e il no delle cose sono parimenti credibili” ? Chi più di un artista-respiratore si ispira e, dopo aver inspirato, espira, espia, ripara, con le sue Opere, alle brutture, sue e dell’uomo in genere?
Inspirare e espirare è movimento evidentemente al centro del concetto di condivisione e trova nell’arte la sua naturale metafora e nell’artista il suo traduttore antropologico.
L’artista-respiratore inspira, infatti, dal mondo le cose e le fenomenologie che muovono le cose, e le espira facendo succedere, a quelle cose, qualcosa. È una specie di albero che affonda le sue radici nella terra e nella storia e, attraverso un processo non dissimile dalla fotosintesi, dà nome e forma alla natura informe facendosi intermediario tra i suoi regni e il regno della cultura che si alimenta di queste opere di intermediazione. In questo senso la Conoscenza è, prima di essere ogni altra cosa, un atto immaginativo e creativo che trova nell’Opera (non per forza d’arte, ma qualsiasi Opera) la sua manifestazione e nell’uomo come essere immaginario il suo medium. Per questo Joseph Beuys dirà che “Ogni uomo è un artista”, ossia un essere immaginario (almeno potenzialmente), intimamente spirituale e creativo, e per questo ogni riflessione che tenti di sintetizzare quegli attraversamenti, sempre complessi che si ascrivono al “Conoscere”, non può non circumnavigare, sezionare, setacciare lo specifico di queste ispirazioni e espirazioni in cui l’Opera si as-solve e, al fine, si ri-solve.
Dunque, sono un artista, e lo sono ne più ne meno di qualunque bipede esemplare della specie umana. Ma non solo. Sono anche un respirante che tenta di fruire delle molteplici metafore che giungono dal respiro dei respiratori. Troppo spesso, infatti, si dimentica -o forse vi si presta solo poca attenzione- a come ogni ispirazione dell’artista-respiratore non potrebbe riempirsi di significato e assurgere al sociale e al culturale se all’uomo-immaginante, all’uomo artista, non si coniugasse il suo necessario contraltare, il fruitore: quel “Altro” attraverso il cui sguardo l’Opera, l’immaginato, scende dal piedistallo del solipsismo e si fa materia disponibile. L’Opera, quale testimone della Conoscenza, è sempre, cioè, un processo di intima condivisione tra almeno due individui in relazione: uno che immagina e l’altro che accoglie quell’immaginazione e gli dà esistenza.
Quando parliamo di “Condivisione della Conoscenza” di “Società della Conoscenza” ci troviamo, quindi, fin da subito, di fronte a due latenze che necessitano di essere esplorate e portate in luce, affinché la condivisione sia davvero tale e non semplicemente l’ennesimo mito della contemporaneità.
Il fatto che tali latenze si trasformino, il più delle volte, in vere e proprie rimozioni, per quanto risultato di diversi fattori, può però essere ricondotto, in buona sostanza, ad una difficoltà più profonda: quella di riconoscere l’Altro come parte essenziale nella costruzione mai finita della propria identità (o della propria Opera, semmai ci fosse differenza); di riconoscere sempre e comunque l’Altro come colui che mi è (come l’Opera) maestro, semplicemente per il fatto che, mio simile/diverso, se lo guardo non solo mi ri-guarda (doppio movimento che contempla l’idea di cura e attenzione mia all’Altro e, insieme, il fatto che l’Altro, guardandomi, a sua volta mi riconosce come suo simile/diverso), ma anche che, attraverso il suo sguardo, anch’io mi guardo, mi ci scopro riflesso. Si tratta, insomma, di quell’ineludibile mutuarsi che caratterizza (consapevolmente o meno) ogni relazione, poiché solo nello iato che si crea tra me e l’Altro si avvicenda, colmandolo, la possibilità di conoscere, ossia di mutarsi o, ancora una volta, di far succedere qualcosa a quella cosa (a quell’Opera) che sono.
In questa complessa relazione di intima corrispondenza che si genera nel movimento conoscitivo, emerge dunque e sopra a tutto l’inevitabilità della relazione quale elemento che comunque sottende ogni condivisione tra umani e, di riflesso, l’irriducibile dimensione educativa che, volenti o nolenti, sempre vi si insinua.
Eppure, quando si parla di “Condivisione della Conoscenza” e della società che discenderebbe dalla rivoluzione delle nuove tecnologie, quasi sempre si elude che ogni Conoscenza è il risultato di una condivisione, che non c’è condivisione senza relazione e che, ogni relazione, implica, in qualche modo, un incontro educativo.
In tutta l’Agenda di Lisbona, come in gran parte del dibattito, per quanto articolato e diversificato per temi e riflessioni, sull’ecosistema digitale: “Relazione”, “Educare” sono vocaboli probabilmente sottesi ma, di fatto, omessi, inespressi. Tutt’al più si parla genericamente di “Formazione” ma sempre -cito, più o meno, dall’Agenda stessa- per: “[…] insegnare agli studenti e al personale delle imprese l’uso delle tecnologie dell'informazione”, secondo questi obiettivi: tutte le scuole devono essere connesse a Internet entro il 2001; tutti gli insegnanti devono essere formati all’uso di Internet e delle risorse multimediali entro il 2002; sempre entro il 2002 deve essere garantito ovunque il pubblico accesso ad Internet o ai centri di Conoscenza, con formazione gratuita in loco; mentre entro il 2003, deve essere portata a termine l’alfabetizzazione digitale di lavoratori e studenti che lasciano la scuola e, entro il 2005, di tutti i cittadini.
Ora, al di là dell‘insensato ottimismo di una tale timing, nessuno può evidentemente obiettare della bontà di questi obiettivi. Quando si parla di “Società della Conoscenza” di ““Condivisione della Conoscenza” ”, si parla giustamente, anzitutto, di questo, ma si corre al contempo il rischio -dicevamo- di ridurre le potenzialità di ciò che evoca l’immagine di questa “Condivisione” e di questa ideale “Società”, riducendone, contemporaneamente, le complessità e, quindi, di fatto, rischiando di ignorarne le problematicità profonde, fino a mancarne l’obiettivo.
È indubbio che “Condividere la Conoscenza” sia qualcosa di più del semplice avere gli strumenti per farlo. Gli strumenti, infatti, sono la premessa affinché la condivisione sia possibile, ma per far sì che tale condivisone avvenga per davvero, affinché si possa davvero parlare di una “Società della Conoscenza”, è indispensabile la volontà di mettersi in relazione all’Altro per condividersi, e la consapevolezza di farlo conoscendone i vantaggi sia sul piano individuale che sul piano sociale. Insomma, appare non solo esageratamente ottimista pensare di poter edificare una “Società della Conoscenza”, esclusivamente esigendo una -per quanto fondamentale- più adeguata legislazione, o una serie di strumenti per connettersi in rete, ma segnala anche una rimozione profonda che rischia di negare qualsiasi autentico accesso alla condivisione. Il lavoro di regolamentazione, il dispositivo tecnologico, non possono, cioè, non essere associati ad un parallelo investimento pedagogico in grado di svelare queste latenze accompagnandoci all’assunzione di nuove consapevolezze e nuovi comportamenti, affinché l’auspicabile “Società della Conoscenza” non si riduca ad una Società della Tecnologia o, la massimo, della Scienza.
L’idea di una pedagogia ansimante sul letto di morte che trascina nel suo oblio qualsiasi riferimento ad una ormai impronunciabile istanza educativa lasciando il campo ad una più apparentemente dinamica “formazione”, non è certo cosa nuova; già Riccardo Massa nel lontano 1987 provava a spiegarne gli assunti quali segnali di un’epoca e delle sue mitologie.
Ma da allora la questione si è fatta -se è possibile- decisamente più drammatica e, insieme alla sempre più vistosa distanza che le istituzioni formative hanno via via preso di fronte ad ogni urgenza educativa (di cui non mancano certo i segnali), il personal computer prima e Internet poi, hanno persino dato forma alle mitologie del tempo, liberandole dal puro dogma e incarnando l’idea di un mondo che, almeno in potenza, sembrerebbe in grado di sopravvivere di pura in-formazione, supportato da una tecnologia dell’istruzione apparentemente, ma solo apparentemente, per tutti... In questo senso, l’assenza della dotazione educativa dal dibattito sulla “Società della Conoscenza” non è che la riprova di quella rimozione cui Massa guardava, chiedendo, già allora, di coglierne il significato nascosto.
Non si vuole certo qui demonizzare il computer e le sue abnormi potenzialità evolutive; ma anzi, proprio porre un segnale di attenzione affinché ogni scenario di liberazione e diffusione della Conoscenza si riveli davvero tale e la montagna non finisca, come spesso accade nella storia umana, per partorire il topolino.
La velocità con cui le nuove tecnologie investono e dissolvono i vecchi paradigmi di riferimento finirà, con buona pace di tutti, per concretare davvero questa benedetta “Società della Conoscenza” (forse anche in Italia…), il problema sarà però capire chi avrà, a quel punto, come suoi cittadini e quale sarà il concetto di Conoscenza cui si riferiranno. Il pericolo che mi pare incombere è quello di una società tecnocentrata e tecnocratica dove, ad un’elite di esperti conoscitori della rete e delle sue modalità di accesso, si sommi una maggioranza più o meno perduta tra un sito pornografico e il video di un idiota che su Youtube si prende il suo quarto d’ora di celebrità schiacciandosi i testicoli in una pressa idraulica; ma entrambi prede di un fulgore di fallace onniscienza e orfani del processo immaginario-costitutivo che definisce le modalità profonde con cui la Conoscenza si produce e gli aspetti relazionali attraverso i quali si condivide e si diffonde.
Chi passa, come me, il tempo respirando e sa che questo suo respirare per avere un senso deve necessariamente entrare in relazione con l’Altro, conosce gli ostacoli profondi che la contemporaneità frappone tra due soggetti in relazione e la loro possibile ““Condivisione della Conoscenza” ”, ostacoli che le nuove tecnologie potrebbero contribuire a farci superare ma che, ad oggi, in assenza di un’efficace consapevolezza pedagogica, sembrano solo esasperare.
Mi riferisco in particolare alla sempre più marcata inettitudine allo stupore e alla meraviglia, soprattutto nelle nuove generazioni cui ogni miracolo tecnologico sembra il risultato scontato di un presente incapace di guardare al futuro attraverso gli scenari della fantascienza; la disabitudine all’immaginazione, causa dell’iperinquinamento di immagini cui siamo sottoposti, immagini “[…] prive della necessità interna che dovrebbe caratterizzare ogni immagine, come forma e come significato, come forza di imporsi all’attenzione, come ricchezza di significati possibili” ; la resistenza all’espressione irrazionale, segnata da una scuola che, al massimo dei suoi sforzi, riesce ad accedere ai labirinti dell’arte con quella cosa improbabile che è l’educazione all’immagine… Ma sopra a tutto, anche quando, con opportuni dispositivi, si riesce a portare l’Altro sul confine dell’atto creativo e immaginale, la domanda che inopportunamente sempre precede l’urgenza passionale è: “E se me la rubano?”: l’idea, l’Opera, il manufatto, l’intuizione e -seppur metaforicamente- l’anima, o se volete ridurne la portata, laddove l’arte ci accompagna nei territori della cura, il sintomo.
“E se me la rubano?”. Domanda giustificabile ma, in qualche modo, illegittima, che contraddice la stessa idea di Conoscenza. Non c’è infatti Conoscenza che non sia il risultato di una Conoscenza pregressa. La Conoscenza contempla, di fatto, sempre il “furto” (se così vogliamo dire) di qualcosa e poi la sua trasformazione –per questo si apparenta maledettamente con l’arte. La domanda “E se me la rubano?” è quindi il sintomo di una società ben lontana dal significato di Conoscenza e assolutamente disgiunta dalla possibilità di condividerla. Il problema, semmai, è capire per quale motivo sia sempre più semplice condividere la Conoscenza, quando questa è la “Conoscenza dell’Altro”. Quando invece è in gioco il proprio mettersi in condivisione, il proprio condividersi, e si annusa fino in fondo che per condividersi bisogna in qualche modo dividersi con… tutto si fa drammaticamente più difficile e sorge la domanda “E se me la rubano?”… È qui, allora, che deve entrare in gioco l’elemento educativo, l’accompagnamento pedagogico.
Ed ecco, quindi, la proposta, nei termini di percorsi capaci di interagire, anzitutto con le nuova generazioni, attraverso progetti che sappiano mostrare come ogni dividersi con… si trasformi, nell’ambito della Conoscenza, in una strana divisione che amplifica anziché sottrarre.
Sono un respiratore e ho da tempo individuato la cifra di questi percorsi nel grande contenitore gnoseologico dell’arte cercando in ogni Opera di lavorare all’emersione di quella strettissima affinità che lega il fatto artistico e l’uomo (qualsiasi uomo) con la sua sete di assorbire, produrre, e condividere Conoscenza; cercando di palesare, non solo che il fatto artistico è la conseguenza di una Conoscenza condivisa, ma che non esiste fatto artistico laddove manca la condivisione.
Ogni oggetto dell’arte viene, per così dire “in luce”, attraverso la condivisione di una molteplicità di sguardi che si condividono l’oggetto stesso, latore di Conoscenza. C’è lo sguardo dell’artista che cattura l’oggetto decifrando gli oggetti che gli giungono dal mondo e ad esso restituendoli in quella forma nuova e inaspettata che chiamiamo “Opera”, ma c’è anche lo sguardo del fruitore che, di fatto, porta l’Opera ad esistenza, dando vita allo snodo di una rete neurale in grado di raccogliere e canalizzare gli stimoli dell’Opera, trasformandoli in consapevolezze e traducendoli in costumi ed azioni che ricadono su uno degli infiniti territori della realtà, modificandola.
È in questo senso che la rete somiglia molto all’arte e che l’arte potrebbe essere, per la rete, il suo libero codice naturale capace di liberare tutti i codici che vi si annettono; a patto che, oltre a presentarne le forme (come già accade), ne disveli i processi che costituiscono il “fare arte”, con opportuni dispositivi capaci di facilitare la condivisione profonda dei saperi, facendosi metafora di quella auspicabile “Società della Conoscenza” in cui, con rispetto e sempre meraviglia, partecipare, insieme, a quella Grande Conversazione dove gli uomini, animati dalla loro fantasia e dai loro saperi, creano nuovi mondi e nuovi uomini.
Massimo silvano Galli - www.msgdixit.it
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